La settimana Telegram (24 agosto – 20 settembre 2020)

Non sai cosa guardare? Ci pensa Netflix
(21 agosto 2020)

A distanza di anni dal suo inserimento nella home page di Google, il tasto “mi sento fortunato” è ancora lì. Anche se la sua funzione nel corso del tempo è mutata. Inizialmente serviva a portare gli utenti direttamente al primo risultato per una qualunque chiave di ricerca. Il tasto evitava la schermata dei primi risultati e portava subito al migliore di essi. 
Dopo un po’ di tempo Google si è reso conto che questo meccanismo comprometteva il suo modello di business e ha trasformato il tasto “mi sento fortunato” in un archivio di doodle. E cioè di quelle grafiche, spesso animate, che commemorano una ricorrenza, un evento, un personaggio. 
Insomma ha trasformato quel tasto in una specie di aiuto per un utente sprovvisto di ispirazione, il quale non sa cosa cercare e se ne sta imbambolato di fronte a Google, all’oracolo, in una posa che – onestamente – è anche difficile da immaginare. Non cercare in casa di chi vive e prospera per la ricerca. Tutta questa lunga premessa (perdonate), serve in realtà a parlare di Netflix. Di selezione, ricerca e di apparente fortuna. 
Molti affermano che anche solo decidersi e capire cosa voler guardare su Netflix sia esso stesso un modo di guardare Netflix. Affermazione non priva di un certo fascino. 
Adesso il servizio di streaming ha deciso di sollevare gli utenti dal peso della scelta, dall’onere della selezione: ha deciso di sostituirsi all’essere umano e di far decidere l’algoritmo al posto nostro.
Netflix sta infatti sperimentando due nuovi pulsanti: uno nella pagina di apertura del servizio, quella in cui si sceglie l’utente; e uno direttamente nel menu principale. 

Il primo si chiama “shuffle” e il secondo “play something”, a breve scioglieranno la riserva e decideranno quale utilizzare. Si intuisce che entrambi abbiano la stessa funzione: proporre una selezione apparentemente casuale di contenuti. 

In realtà si tratta di una scorciatoia rispetto a come Netflix si comporta sin da quando è stato fondato: suggerire film, documentari e serie tv sulla base della storia di navigazione. Come vi avevo raccontato lo scorso aprile, l’algoritmo del servizio inserisce ogni utente in una “Comunità di gusto” che è una delle 3 gambe sulle quali si basa il funzionamento della piattaforma. La seconda gambe è l’esperienza di navigazione, la storia di ciascun utente e la terza il lavoro di etichettatura (tagging) che fanno i recensori. Sulla base di questi 3 elementi Netflix suggerisce ciò che potrebbe piacerci. (L’euristica applicata a Breaking Bad). 

Con i nuovi tasti l’idea è quella di cancellare un passaggio, quello della scelta umana e lasciare che faccia tutto la macchina

Netflix dice che introdurrà queste nuove funzioni soltanto se gli utenti la reputeranno utile.

Tutto il discorso sulle capacità di scelta insidiate dagli algoritmi, e dalle loro notevoli capacità predittive, si accresce di un altro e ulteriore capitolo. Un passo alla volta scivoliamo verso l’abrogazione della nostra possibilità casuale, estemporanea, di scelta.  


Twitch
(23 agosto 2020)

I videogame hanno rumorosamente preso posto a tavola. Hanno trascinato la sedia, si sono sistemati il tovagliolo attorno al collo, hanno allargato i gomiti, in una maniera che noi di una certa età, definiremmo sgraziata e ineducata, si sono messi comodi; e adesso stanno occupando lo spazio che un tempo era esclusiva dei film, delle serie tv, dell’intrattenimento in generale, e andando più alla lontana hanno preso il posto che un tempo occupavano i libri e le storie. 

«Trasmettere e guardare persone che videogiocano – ha detto Jeff Bezosè un fenomeno globale». Tanto rilevante che nel 2014 proprio Bezos ha acquistato alla modica cifra (non sono ironico) di 1 miliardo di dollari una piattaforma che si chiama Twitch. Si tratta di uno spazio digitale «che riunisce decine di milioni di persone che guardano miliardi di minuti di giochi ogni mese», pari al 76% del mercato dello streaming di videogame in Europa e Stati Uniti (cifre mostruose). Il 55% di chi frequenta Twitch ha tra i 18 e i 34 anni, mentre sono 15 milioni gli utenti attivi ogni mese, poca cosa rispetto a Facebook o TikTok, ma da non sottovalutare anche perché vanno considerati a tutti gli effetti degli spettatori che però interagiscono. Per chi è cresciuto in un ambiente analogico, la cosa ha contorni difficili anche solo da immaginare, ma occorre prendere le misure a questo fenomeno che di sicuro crescerà enormemente. Invece di andare allo stadio o al palazzetto dello sport, io guardo persone che giocano ai videogame o che fanno eSports (ne dovremo parlare qui, prima o poi). 
Tutto si dematerializza ma non per questo risulta meno coinvolgente. 

Twitch è una specie di super YouTube basato sulla diretta di centinaia, migliaia, di canali dedicati a videogiochi e non solo. Esistono anche spazi per le chiacchiere, per la politica, per discussioni sulla musica e sul cibo. L’elemento di forza sta da un lato nella centralità dei videogame e degli eSports, dall’altro nella funzione che la piattaforma abilita, una chat accanto al video in diretta, in cui le persone discutono tra loro e con il conduttore o i conduttori della diretta. La paroline magiche sono interattività e comunità. Pontlus Eskillson ha detto a Repubblica che Twitch rappresenta una comunità che ha dato alle persone «l’opportunità di incontrarsi, stabilire connessioni e costruire un senso di appartenenza attraverso interessi condivisi. Durante il lockdown, dove è diventato impossibile riunirsi fisicamente, molti si sono rivolti alla comunità digitale».

La verità è che Twitch somiglia terribilmente alla televisione. Certo si può interagire con i conduttori, ma l’apparente parità di qualunque social network risulta qui depotenziata, trova una barriera nel conduttore. Figura meta-televisiva, di significativa mediazione, di chiusura: che decide se e quanto leggere di un commento scritto da un utente qualsiasi. 

Se il mio commento passa il vaglio di quanto interessa al conduttore allora la mia sarà vera interattività, avrò l’onore di essere citato, lodato, addirittura criticato; altrimenti quel commento si perderà come altri in un’immemore nuvola di parole (E tutti quei momenti andranno perduti nel tempo, come lacrime nella pioggia).
Credo che dovremo considerare Twitch come un esempio di rilevante medium prossimo venturo, i cui confini sono ancora sfumati. Per adesso la piattaforma risulta molto attraente a un particolare tipo di investitore pubblicitario per tre caratteristiche precise: il gioco più popolare lì dentro è Fortnite (gioco in cui si spara e si uccide); l’81,5% degli utenti è di sesso maschile e il 21,3% di essi viene dagli Stati Uniti
Ecco le ragioni per cui le Forze armate americane Uniti hanno deciso di presidiare Twitch con serietà. Hanno investito mai come prima d’ora in pubblicità digitale nella piattaforma e hanno creato canali dell’Esercito, della Marina e dell’Aeronautica dedicati agli eSports. Per lo più si tratta di una grande operazione di marketing connessa a sistemi di reclutamento. Invece che con il tradizionale banchetto davanti ai college, adesso le Forze armate lavorano nel luogo più frequentato dagli adolescenti americani che decidono o devono arruolarsi: lo spazio digitale.   

📌Una bella inchiesta di The Nation ha raccontato il modo in cui i militari americani sfruttano la semplice esistenza del canale di eSports per avvicinare ragazzini: «in questo momento, con il supporto di Twitch, i giocatori delle forze armate statunitensi trascorrono ore con bambini di appena 13 anni, cercando di convincerli ad arruolarsi». Basta dare un’occhiata al canale dell’Esercito per rendersi conto di come funziona: un soldato in divisa mimetica, con un paio di brevetti di paracadutismo in bella mostra, gioca a un videogame di guerra, tipo Call of Duty, e interagisce con il proprio pubblico e risponde alle domande, in alcune circostanze i ragazzi possono anche vincere una consolle xBox. Se qualcuno prova a obiettare qualcosa, a criticare il comportamento delle Forze armate, oppure a ricordare i crimini di guerra statunitensi il conduttore-moderatore-soldato lo sbatte fuori dalla chat. 

Reclutare dentro Twitch, sfruttando le squadre di eSports, fa parte di un percorso che in passato ha condotto Marina, Esercito e Guardia Nazionale degli Stati Uniti a collaborare attivamente alla sponsorizzazione o alla creazione di videogiochi con ambientazioni di guerra. Se è vero che l’US Army ha utilizzato l’addestramento basato sui videogame, e se è vero che molti piloti di droni sono stati scelti tra ragazzi che non avevano mai volato, la ragione della presenza delle Forze armate dentro Twitch è più prosaica. In un social network è più facile avvicinare quelle fasce di ragazzi che hanno bisogno di arruolarsi per ragioni sociali ed economiche.

Invece i Marines, in un documento redatto all’inizio di quest’anno, hanno scelto di non aprire un canale dedicato agli eSports con una motivazione che vale la pena leggere per intero: «la strategia di marketing connessa al brand (dei Marines) non prevede l’attivazione di un canale di eSports o la creazione di videogame con il brand dei Marines. Questa scelta deriva dalla convinzione che che il brand (dei Marines) e le questioni associate al combattimento (alla guerra) sono troppo serie per essere trasformate in un gioco (gamified, qualcuno in Italia tradurrebbe con gamificate) in maniera responsabile».
Non possiamo sapere se i Marines cambieranno idea. Di sicuro le piattaforme di streaming per videogame vanno tenute d’occhio come luogo in cui si forma l’opinione di pubblici differenti, la politica già l’ha fatto. Bernie Sanders aveva un canale dentro Twitch e così Donald Trump, che però è stato bannato per discorsi di incitamento all’odio. 


Facebook e le elezioni
(26 agosto 2020)

Era da un po’ che non scrivevo di Facebook. A essere onesti tutta Disobbedienze potrebbe parlare soltanto del social network di Mark Zuckerberg, della sua mostruosa influenza socio-culturale, e soprattutto politica (dico Facebook ma vale anche per Instagram e Whatsapp). Il tema, alla lunga, appare sempre lo stesso: smisurato potere, smisurate responsabilità, smisurati effetti sugli esseri umani. Più che annoiare, e di sicuro annoierebbe, diventerebbe opprimente. 

Però a volte non posso fare a meno di raccontare cosa accade da quelle parti.

➡️ Recentemente Sheryl Sandberg, alter ego politico di Zuckerberg e Capo delle operazioni di Facebook, ha detto che ciò che «per una persona è un’opinione, o libertà d’espressione, per qualcun altro è incitamento all’odio» («one person’s opinion, one person’s free expression can be another person’s hate»). Il relativismo di Facebook espresso in una frase. Proposizione nitida il cui riflesso è: lasciate ogni speranze o voi che pensate di poter moderare l’incredibile mostro di Frankenstein che abbiamo messo in piedi. Per Sandberg e Zuckerberg è sbagliato e immorale stabilire i confini del diritto d’espressione nel social network, soprattutto con riferimento ai politici (e a Trump). Affermazione attenuata, con un certo vanto, da un’altra frase pronunciata dalla responsabile delle operazioni del social network: «Facebook da solo ora trova il 95% dell’incitamento all’odio che poi viene rimosso, rispetto al 24% di un paio di anni fa». Provo a tradurre: le persone possono dire quel che vogliono, sono tante persone, più di 2 miliardi e mezzo, ma siccome ci avete davvero seccato con questa cosa dell’hate speech allora abbiamo deciso di strizzare la nostra intelligenza artificiale, di insegnarle a riconoscere i cattivi, di pedinarli ovunque essi siano e sfornarvi queste cifre mirabolanti
Sembrano i numeri che alcuni politici navigati sciorinano in un talk show: senza fonti, senza raffronti, senza alcuna evidenza. Per fare scena. Per sembrare credibili. Per essere autorevoli. 

Il 95% rispetto a cosa? Rispetto a quanti post? In quante nazioni? Con quali criteri? Quanto pesa quel 5% rimanente? Peccato che il giornalista non abbia fatto queste semplici domande. La verità è che qualunque intelligenza artificiale può, fin qui, essere aggirata grazie alle sfumature (preziose e meravigliose) del linguaggio umano. 

Eppure le parole di Sandberg ribadiscono ancora una volta in che modo dovremmo considerare le techno-corporation e i loro rappresentanti: come dei politici. Trattarli alla stessa stregua dei politici. Alla pari. Politici che non hanno però necessità del consenso (se non quello degli azionisti, nel caso di Facebook la maggioranza delle azioni è saldamente nelle mani di Mark). 

E Zuckerberg stesso ha un orizzonte assai più lungo di un mandato presidenziale. Ecco perché in questi giorni – secondo alcune rivelazioni del New York Times – il social network si sta preparando ad affermazioni premature di vittoria, a mosse a sorpresa di Trump in caso di sconfitta, o proprio che «il presidente Trump interferisca una volta chiusi i seggi». Il social network si sta preparando all’ipotesi che il Presidente in carica affermi di aver vinto le elezioni, che contesti il verdetto, che gridi ai brogli nel voto per corrispondenza. L’idea dalle parti di Facebook è quella di apporre etichette ai post problematici di Trump, e cioè tag che spieghino che lo scrutinio è ancora in corso; oppure un kill switch for politcal advertising, e cioè un blocco di qualunque tipo di pubblicità politica, a seggi chiusi e risultato incerto. 

Facebook non è il solo a studiare piani di emergenza per le elezioni, stanno facendo lo stesso Twitter e YouTube (cioè Google). 

Tutte techno-corporation hanno trascorso gli ultimi anni, dalle consultazioni del 2016, a togliersi di dosso la polvere delle interferenze russe. A cercare di capire come neutralizzare problemi inediti alle prossime presidenziali. Ecco, adesso le parole di Sandberg assumono un rilievo differente. Stanno lì a ricordarci che le aziende della Silicon Valley, davanti alle elezioni,  contemplano un ventaglio di ipotesi che va dalla massima libertà di espressione alla caccia agli agenti russi che lavorano per favorire Trump, o agli agenti cinesi che – al contrario – vogliono che vinca Biden. 
Quale che sia l’esito di novembre, le parole della chief operating office di Facebook ricordano che gli unici che possono sentirsi preoccupati nel gestire le elezioni della più importante democrazia del pianta sono loro, le techno-corporation. (Gestire, è un verbo impegnativo). 

Dopotutto Zuckerberg ha affermato che il social network intende «preparare le persone al fatto che c’è un’alta probabilità che ci vogliano giorni o settimane per arrivare a un risultato definitivo – e che non c’è niente di sbagliato o illegittimo in questo». E ha aggiunto che il centro elettorale (!) di Facebook farà affidamento sui servizi delle agenzie di stampa per ottenere risultati definitivi. 


Costruire comunità di lettori
(1 settembre 2020)

L’Australia sta seriamente pensando che Facebook e Google debbano pagare gli editori per i contenuti giornalistici che vengono condivisi nelle loro piattaforme. L’idea è semplice: voi fate i soldi con gli articoli scritti dai giornalisti, restituite una parte di quanto incassate agli editori stessi. Nulla di sconvolgente, in apparenza. Il problema è il ruolo e il potere presso le persone che Facebook e Google hanno assunto. 

Tanto che adesso Mark Zuckerberg ha avvisato l’Australia: potete pure andare avanti con questa mania del farci pagare, ma a quel punto noi vieteremo alle persone di condividere quei contenuti. Per essere più precisi: Facebook e Instagram impediranno di condividere notizie nazionali e internazionali a tutti gli utenti Australiani. 

Will Easton, amministratore delegato di Facebook Australia, in un comunicato ha spiegato che questo «è l’unico modo per proteggersi da un risultato che sfida la logica e, a lungo termine, non aiuterà ma anzi danneggerà la vitalità del settore dei media australiani». Vi state dando la zappa sui piedi, questa la logica conclusione. E ha aggiunto che le notizie rappresentano solo una frazione di quanto guardano gli utenti, e che le stesse notizie non pesano poi così tanto nei feed delle persone. A corredo ha evidenziato due cifre: «durante i primi cinque mesi del 2020 il News Feed di Facebook ha portato 2,3 miliardi di clic ai siti di notizie australiane, senza alcun costo (!). Si tratta di traffico aggiuntivo che ha un valore stimato di $ 200 milioni di dollari australiani per gli editori». Il comunicato si chiude dicendo che se l’Australia vuole tornare indietro loro l’accoglieranno a braccia aperte e che sono pronti a offrire in cambio il progetto Facebook News, già introdotto negli Stati Uniti. (Progetto scritto e pensato alle condizioni di Facebook). Non ci sarebbe molto da aggiungere a tante cose che ho già scritto qui dentro. Non devo aggiungere altro alla considerazione sul potere di Facebook che gli consente di opporsi a uno Stato, su un tema rilevante come quello della libertà di informazione. Ma la verità è che Facebook è di proprietà di… Facebook. E quindi fa come gli pare. Quello è il suo territorio

In ultima analisi questa vicenda rivela quanto sia nudo il re nell’universo editoriale. Per chiunque in questo settore il vero problema risiede nel costruire un’audience propria, e che prescinda da chi possiede la maggiore – e la più analizzata e più targettizzata – audience del pianeta. Una questione che attiene alla capacità degli editori di ritrovare, in alcuni casi di trovare ex novo, un pubblico nello spazio digitale, a partire dal prodotto che vendono. E non contando in alcun modo su chi – Facebook e Google – ha edificato su altre logiche la più grande comunità di utenti del mondo:  il pubblico più esteso del pianeta. Negli Stati Uniti questa cosa ha funziona per molti grandi quotidiani che sono riusciti a crearsi un proprio pubblico; per molti altri ha significato la fine delle pubblicazioni. La fine delle aziende. 

Non è facile, sapete, costruire una comunità di lettori

Anche questo piccolo canale Telegram serve a fuggire la dittatura di Facebook. Eppure, credetemi, è molto più comodo ricevere clic su una pagina nel social network che acquisire contatti qui dentro. Quando si paga, poi, non ne parliamo. Il tutto ruota attorno a una questione di numeri: gli esperti la definiscono legge di Metcalfe, la legge sugli effetti di rete. E cioè: se tutti gli amici stanno dentro Facebook, io mi farò Facebook. Se gli amici decideranno di entrare in Telegram, allora sarà conveniente stare su Telegram, e anche io mi iscriverò a Telegram. Se un solo amico ha un telefono non è conveniente avere un telefono.

Questi esempi rappresentano la componente socio-economica di un ragionamento che è assai più complesso. Per chi vende notizie, e per chi si propone di analizzare e leggere il presente, una volta acquisita la legge di Metcalfe, occorre capire per quale ragione le persone dovrebbero scegliere una comunità di lettori, tra l’altro pagando. Per fare cosa e con quali obiettivi.

Con Disobbedienze mi sono proposto l’obiettivo di raccontarvi cosa accade nello spazio digitale, provando sempre a offrire una chiave di interpretazione che vada oltre la superficie. Non sono un giornale, non pago stipendi, lo faccio perché lo ritengo doveroso. Perché credo che quanto accade nel web influisce e determina le nostre vite. E sono più che contento di farlo con 300 persone, che mi sembrano una cifra non indifferente se vi immagino in una piazza, e non come semplice un numero. Hanno molto più valore delle 1500 circa che mi seguono su Facebook. Anche perché qui dentro, nessuno di noi – né io, né voi – deve soggiacere ai ricatti del social network. Il mio compito è offrire un servizio che sia all’altezza delle premesse. Questo, in teoria, è il lavoro che dovrebbe fare chiunque propone (e vende) la lettura di contenuti. Quale che sia il numero di lettori che ha di fronte. Affidarsi ai mediatori non conviene mai perché, prima o poi, questi presentano il conto. Come in Australia.


No vax, no mask, terrapiattisti, polarizzazione e coda lunga
(06 settembre 2020)

Ieri a Roma si sono radunate 2000 persone intorno a una serie di no declinati in vari modi. Troverete oggi molte riflessioni intorno a questa manifestazione, alcune interessanti, altre che mirano al colore, altre ancora che disprezzano o che incorporano una discreta forma di presunzione. Qui dentro parliamo di tecnologia e del fatto che questo minimo assembramento ha tuttavia avuto grande spazio nei media. Non si vedono molte manifestazioni simili arrivare in prima pagina e godere di una diretta. 

Partiamo dalla tecnologia e da un assunto: Internet, fin dalla nascita, costituisce il luogo di adozione di ogni minoranza, coltiva ogni identità, nutre l’interesse più ristretto, circoscritto. Conferisce a gruppi marginali un terreno di confronto, uno spazio di organizzazione e mobilitazione, e infine uno strumento per ottenere visibilità. Quest’ultima è una variabile che dipende dalle capacità di utilizzo dei mezzi che si trovano in rete. 

Da cosa nasce questo assunto? 

Da un principio, fissato da un articolo di Chris Anderson poi trasformatosi in volume, che definisce l’esistenza di una cosiddetta “coda lunga”. Si tratta di un principio per il quale sul web esiste sempre un pubblico – piccolo a piacere, quindi anche minuscolo, di 2000 persone – che ha interesse verso ogni prodotto offerto in una selezione sterminata di prodotti (fatemi essere brutale, anche le idee sono prodotti. Quindi anche l’idea che il vaccino non esiste). 
Su un catalogo di almeno 100.000 titoli per un qualunque negozio online, molto grande, il 99% di questi titoli viene acquistato, visto, ascoltato, almeno una 1 volta al mese. Ciascun insuccesso piccolo a piacere troverà sempre un suo pubblico. 

Questo principio sta alla base del successo di Amazon, di Netflix, ma anche di Google-YouTube e di Facebook.
Su Amazon si trovano tutti i libri, non solo i best seller, e alcuni libri impensabili hanno acquirenti. 
Su Netflix e YouTube si trovano tutti i video e i film, non solo i campioni di incasso, e piccoli film di nicchia hanno un pubblico. 
Su Facebook si trovano gruppi e interessi molto specifici, non soltanto gruppi per categorie che interessano tutti. Compresi i terrapiattisti, i no mask e i no vax, ma anche molti ignoti no-qualcosa e molte altre teorie cospirazioniste di cui non conosciamo nemmeno l’esistenza (ricordate QAnon? All’inizio era un gruppo di pochi, adesso…). 

Se Internet è stata giustamente definita una massa di nicchie, nel senso di una somma planetaria di tutti gli interessi particolari che hanno trovato diritto di cittadinanza e di rappresentanza digitale, allora la coda lunga rappresenta una nicchia di prodotti e quindi di persone interessate a quei prodotti. La chiave del successo di molte techno-corporation risiede proprio nel fatto che gli algoritmi, di cui sono proprietarie, offrono risposte, spazi, prodotti, soggettività a tutte le nicchie. Letteralmente a tutte: perché ogni individuo può creare la sua singola nicchia. Ciascun piccolo gruppo, ciascun consumatore, esperto, appassionato trova egoistica soddisfazione nel suo piccolo, particolare, esclusivo interesse. La coda può allungarsi a piacimento: la granularità degli interessi e della loro rappresentazione digitale corrisponde virtualmente al numero degli abitanti del pianeta connessi a una rete aperta. Così come esistono pubblici interessati a un prodotto, un film o una canzone, che non è un successo, così esistono pubblici – comitati, associazioni, gruppi di pressione – che sono interessati a temi molto circoscritti, particolari, bizzarri, non mainstream, di controcultura, si sarebbe detto un tempo. Oggi questi gruppi possiedono una soggettività pubblica digitale che fino a ieri non potevano esprimere. I no vax esistevano pure prima del web e si mandavano fax tra loro e all’Istituto superiore di sanità. La differenza è che questi gruppi oggi possiedono soprattutto uno spazio organizzativo e di comunicazione.

Così come prima serviva Blockbuster per affittare i film, e un Partito politico per organizzare persone attorno a idee e slogan, così oggi basta Netflix e un gruppo su Facebook o su Whatsapp per scendere in piazza in duemila. 

Il futuro sarà sempre più costellato di microsoggettività politiche che tendono ad aggregarsi in rete, perché la rete offre loro uno spazio senza pregiudizi, uno spazio in cui riconoscersi (in senso profondo). 

Sempre per una ragione tecnologica, trasformata in riflesso condizionato dai giornalisti, la manifestazione di ieri ha trovato spazio nelle prime pagine dei quotidiani. Se da un lato è vero che si tratta di una notizia, è anche vero che nella gerarchia delle notizie avrebbe dovuto comparire in un luogo diverso, e meno rilevante, da dove molti l’hanno collocata. 

Stavolta la posizione sulla carta appare figlia di quanto è accaduto nei portali dei quotidiani. Credo, infatti, che la manifestazione di ieri abbia generato molti commenti, reazioni e condivisioni sui contenuti che ne parlavano. Tanti criticavano, denigravano, anche in una percentuale di tantissimi contro pochi, non ha importanza. 

Molti colleghi, che fanno il giornale cartaceo, hanno considerato quelle reazioni come un interesse, in parte originale, nel senso di genuino. La verità è che in parte non lo è. Si tratta di un comportamento figlio della polarizzazione che è un prodotto di scarto ma rilevante e devastante della presenza in rete. 

Gli studi di Walter Quattrociocchi hanno evidenziato queste dinamiche che ormai possiamo considerare consolidate. Gli utenti che stanno dalla parte scienza si comportano come gli altri, i loro avversari, e «tendono a polarizzarsi sulla propria narrazione di riferimento». In questo caso quella pro scienza. Ecco la spiegazione dei tanti commenti. Le funzioni che gli spazi digitali abilitano favoriscono le reazioni dei pubblici più polarizzati.
In generale, se guardiamo al futuro, dovremo fare i conti con una progressiva spinta a rafforzare, a circoscrivere e difendere le identità e i gruppi. Non sono soltanto coloro che richiamano ai confini, alle nazioni, ai popoli a premere in questa direzione. L’identità è concetto chiaro ma che assume sfumature innumerevoli, multiple, cangianti, anche perché – grazie alla rete, come abbiamo visto – si possono moltiplicare i soggetti e le identità da difendere, fino a un livello di granularità impressionante

Il rischio che tutto questo si stia trasformando in una enorme trappola per me è evidente (dovremo riparlarne). 

Vi lascio con le parole di un breve saggio di Mark Lilla, dal titolo chiaro, L’identità non è di sinistra: «il paradosso del liberalismo identitario è che atrofizza la capacità di pensare e agire in modo da ottenere i risultati che dice di voler raggiungere. È ossessionato dai simboli: creare una rappresentazione superficiale della diversità all’interno dei centri decisionali, riscrivere la storia per concentrarsi su gruppi marginali e talvolta minuscoli, inventare eufemismi inoffensivi per descrivere la realtà sociale, proteggere giovani occhi e orecchie, già peraltro abituati a film truculenti, da spiacevoli incontri con punti di vista diversi. Il liberalismo identitario ha smesso di essere un progetto politico e si è trasformato in un progetto evangelico. Con una differenza: l’evangelismo dice la verità al potere. La politica prende il potere per difendere la verità».


Non c’è altro modo 
(8 settembre 2020)

Enrico Bucci, scienziato, divulgatore, autore del libro e del blog Cattivi scienziati, ha un Ph.D. in Biochimica e Biologia molecolare (2001), è professore aggiunto alla Temple University di Filadelfia (USA), è anche titolare di una pagina Facebook che si chiama “cattiviscienziati”. In questi mesi ha raccontato con precisione ed estrema chiarezza, e semplicità, la pandemia. Ha spiegato, cercato di raccontare cosa si nasconde, o si vede, dietro ai numeri, ha portato avanti quella che si definisce divulgazione, come hanno fatto molti altri suoi colleghi. Persone serie che hanno aiutato i non esperti a capire, a sapere. 
Bucci ha sempre utilizzato un linguaggio chiaro, rigoroso, con un tono poco conflittuale. Uno scienziato che come slogan ha utilizzato “sereni ma vigili”, ma nel tempo è stato critico sia verso i negazionisti che verso le istituzioni. Una pagina da seguire, insomma.

Ieri però Bucci ha scritto un post in cui annuncia: “tolgo il disturbo”. Ha scritto che si prende una pausa dai social network come luogo di confronto, e che utilizzerà la pagina soltanto come canale di distribuzione. Per condividere quanto scrive sui giornali e nelle riviste. E purtroppo questo è l’utilizzo più sconsiderato, dal punto di vista dell’algoritmo di una pagina su Facebook. Zuckerberg non vuole che le persone escano dal suo regno, e così ogni post che contiene un link, anzi che contiene soltanto un link e nient’altro è pesantemente penalizzato, nel senso che l’algoritmo lo fa vedere a un numero minuscolo di persone. Ogni volta che pubblicate qualcosa in questi termini non dimenticatelo.

Ma ciò che più fa riflettere è la motivazione con cui Bucci chiude il suo spazio. Egli scrive: «non mi è riuscito di mantenere questa pagina un luogo di confronto civile. A volte ho ricevuto insulti, ma questo era nel conto; molte volte ho dovuto fornire spiegazioni inutili a chi continuava a mettermi alla prova solo per il gusto di farlo, senza cercare di capire, ed anche questo era nel conto; il punto è che troppe volte qualunque cosa io abbia scritto, è diventata motivo per entrare (voi) o gettare (me) proprio in quell’arena di affermazioni fatte per soverchiare, non per spiegare o capire, che rifuggo perché penso siano la fine del pensiero razionale».
Purtroppo non esiste un’alternativa a un simile destino per una pagina di successo, e quella di Bucci è una pagina di successo che si occupa di un tema controverso
La dinamica è semplice: più persone arrivano più la temperatura si alza, più il confronto diventa conflitto, più la polarizzazione assume il contorno della rissa, più gli utenti si trasformano in troll. Non c’è possibilità di fare diversamente. Si tratta di una specie di entropia di Facebook, e dei social network più in generale. 

Inoltre, per quanto siano un luogo di conversazione, i social non sono uno spazio di informazione e tantomeno di divulgazione. Stiamo lì perché ci sono i nostri amici, perché ci sono i vip, anche per le cose che ci interessano, e poi perché conversiamo, perché sbirciamo le vite degli altri, perché attiviamo un dialogo, non per leggere il giornale e nemmeno per assistere a una lezione (passatemi la brutalità). Nei casi in cui il tema di cui parliamo non ha elementi conflittuali, divisivi come va di moda dire ultimamente, e se siamo fortunati, avremo un tasso di scontro contenuto. Altrimenti l’esito sarà comunque questo una percentuale variabile di scontri tra utenti e con gli utenti.

Non esiste un modo differente che non sia quello del primo Roberto Burioni per stare nei social network applicato a un tema che divide – ahimè –  come lo sono la medicina e la scienza. Ci sono eccezioni, soprattutto rispetto ad alcune strutture sanitarie (penso all’Ospedale Bambino Gesù, allo IEO, al Gaslini, all’Humanitas), ma reputazione e spersonalizzazione aiutano e riducono il tasso di conflittualità. 

Se si decide di spiegare e parlare di scienza nei social network, facendolo in prima persona, con nome e cognome, bisogna mettere in conto che potrà essere necessaria un atteggiamento muscolare, provocatorio, divisivo, censorio e prescrittivo (sì, tutte queste cose insieme). Il che, ed è il vero tema di questo ragionamento, non aiuta la divulgazione scientifica fatta in prima persona. Aiuta a far crescere le pagine, a creare personaggi, ad aumentare la polarizzazione, ad aumentare l’interazione, indipendentemente dalla qualità di quest’ultima. 

Bucci ammette che l’arena in cui è finito, suo malgrado, rappresenta la fine del pensiero razionale. I social network sono tutto tranne che uno spazio in cui si agita il pensiero razionale. Ricordo la frase con cui Roberto Burioni divenne celebre: la scienza non è democratica. Affermazione condivisibile (per quanto anch’essa sia muscolare e apodittica), provocatoria, fatta dalla sua pagina Facebook, e cioè dallo spazio in cui la parità digitale da slogan si fa paradigma e simulacro proprio della democrazia.
Io posso commentare chiunque, criticare chiunque, anche un premio Nobel su Facebook. La funzione che il social network abilita, rende tutto apparentemente democratico lì dentro, finché qualcuno non mi disattiva la funzione stessa; finché cioè non mi disabilitano i commenti, mi cancellano l’account, chiudono lo stesso social network.
Stare in quello spazio significa accettarne gli esiti. Non esistono piani ulteriori; e ci tocca fare fino in fondo i conti con l’irrazionale e con il gelo che sale da quella sentina, altrimenti dovremo sorbirci la terribile e lontana ingiunzione di Mefistofele «se sai qualcosa, allora taci, se ti va bene rimani. Se hai qualcosa trattienilo, la sfortuna ha piè veloce. Perciò taci, soffri, evita e sopporta, non lamentarti con alcuno della tua sfortuna, è troppo tardi per tornare a Dio».


Come funziona l’algoritmo di TikTok
(11 settembre 2020)

Non so voi, ma personalmente non mi ritrovo in TikTok. Sento un’inesorabile distanza tra quello che avviene lì dentro e la mia vita. Mentre gli altri social network sono più o meno popolati da miei coetanei e da contenuti in linea con le mie curiosità, colloco TikTok a una distanza siderale dal mio orizzonte di comprensione e interesse.

Tuttavia credo che si debba fare uno sforzo, e cercare di capire come funziona il social network cinese, perché si tratta dello spazio digitale d’elezione in cui molti adolescenti, anche italiani, i quali vi trascorrono buona parte del loro tempo, intrattenendo relazioni, divertendosi, comunicando e facendosi un’idea del mondo, più o meno precisa.  

Ieri nel corso di una videoriunione con i giornalisti, i manager di TikTok hanno fatto il punto della situazione rispetto all’acquisto da parte di diverse cordate americane, ma soprattutto – ed è ciò che interessa in questa sede – hanno rivelato alcune informazioni circa il funzionamento dell’algoritmo. Ricordiamo sempre che ogni algoritmo di ogni techno-corporation è un segreto custodito con cura particolare, perché rappresenta la vera fonte di guadagno di queste aziende. Una specie di formula della CocaCola applicata ai nostri comportamenti, interessi, passioni e alle relazioni che vogliamo intrattenere con altri esseri umani. 

Nella videochiamata i manager hanno ribadito la volontà di aprire un Centro per la trasparenza a Los Angeles. Dovrebbe qualcosa come un luogo in cui le persone potranno nformarsi sui processi di moderazione della piattaforma, una specie di finestra per capire come funziona la società. Ovviamente parliamo di una intelligente mossa di comunicazione e marketing, che però rivela una debolezza nei confronti dell’opinione pubblica e la volontà di prendersi cura di questa debolezza.

Ma cosa hanno detto rispetto all’algoritmo? Come funziona? 

Le notizie evidenziano alcuni elementi che sono molto tradizionali, nel senso che appartengono alle classiche modalità di funzionamento degli algoritmi di altri social network

📌In primo luogo TikTok cerca da subito di capire cosa piace, cosa colpisce un nuovo utente. E così  la prima volta che apre l’applicazione, questa propone 8 video tra più popolari e di tipologie differenti. Sulla base di come interagisce con questi video,  l’algoritmo continuerà a proporre, in blocchi di 8, contenuti che siano in linea con i suoi gusti. 

TikTok, inoltre, classifica gli utenti e li inserisce in cluster di interesse, qualcosa di molto simile a quello che fa Netflix. Ciascun ragazzo, in sostanza, viene collocato all’interno di uno specifico gruppo di persone (cluster) che guarda e interagisce con video di un certo tipo. In modo da poter proporre a tutti gli appartenenti a un cluster video simili, che mostrano apprezzamento da parte di questa sotto-community.  

Ma TikTok cerca di capire più possibile non solo cosa interessa alle persona, ma soprattutto come sono fatti e di cosa parlano i video, utilizzando tutti i segnali disponibili: hashtag, descrizioni, suoni presenti nel video. In questo modo fa corrispondere video interessanti a soggetti interessati. Risulta evidente che il social network riesca alla perfezione in questa impresa, ragione vera del suo successo. 

Infine, e questo sembra essere un altro aspetto rilevante, l’algoritmo tenta di non annoiare mai gli utenti. Ovvero evita di proporre contenuti di uno stesso autore oppure che contengono lo stesso tipo di musica.

Nella conversazione con la stampa, i manager di TikTok hanno ammesso che questo modo di procedere, che inchioda utenti a contenuti di un certo tipo, per quanti correttivi possano immaginare, crea camere di eco, bolle in cui le persone guardano e interagiscono con contenuti simili tra loro. Una specie di enorme meccanismo che rafforza le preferenze e non espone mai gli utenti all’inatteso, non sollecita mai curiosità e non si scopre mai a visioni differenti del mondo. 

L’aspetto rivoluzionario di TikTok sta nella lettura d’autorità di tanti segnali che arrivano dai comportamenti delle persone, quando abitano il social network, sia come spettatori che come produttori di contenuti. Nessun social network si muove in questo modo, anzi quasi tutti cercano di leggere le preferenze espresse degli utenti e quelle inespresse. 

TikTok ha sviluppato un’intelligenza artificiale che evidenzia, legge e categorizza tutto ciò che è implicito nel comportamento delle persone nel suo spazio digitale. Non ha bisogno che io dica quello che voglio vedere, o che elenchi i miei gusti e interessi, lui lo capisce, lo interpreta secondo i suoi schemi, lo desume in maniera autoritaria per così dire (non posso non pensare a certi passi de Lo straniero di Camus). Questo comportamento apparentemente divinatorio, magico, si è rivelato estremamente fruttuoso ed è la ragione per cui gli altri social network cominceranno a inseguire la società cinese su questo terreno. Nel giro di qualche anno, non è difficile immaginare che smetteremo di dire cosa ci piace, saranno le macchine a capirlo da tanti minimi, continui, segnali digitali e non.


Ascoltare De Rita
(14 settembre 2020)

Prendo in prestito un’intervista di Repubblica a Giuseppe De Rita, sociologo, fondatore del Censis, una delle poche persone da ascoltare a prescindere, come direbbe Totò. 

Ecco le sue parole: 
«l’Italia che esce dal lockdown è timida, pigra, propensa alla “casalinghità”, allo smartworking, con una vita quotidiana molto lontana dalla violenza di margine di giovani che rifiutano questo tipo di vita».

Da dove nascono questi comportamenti così violenti e così diffusi?

«Sono frutto di una cultura collettiva, a cui non è di certo estranea la borghesia, che esalta la parte competitiva di ciascuno di noi. Sono figli di una grande ondata di soggettivismo che, se non è retta dall’etica, arriva a produrre questa realtà. Abbiamo insegnato ai nostri figli che bisogna emergere, primeggiare, c’è chi può farlo andando a formarsi alla Bocconi, facendo tirocini in aziende di nome. E chi, invece, prova a emergere nella sua comunità con quello che ha: le arti marziali, i muscoli, la voce grossa, quello che serve a superare gli altri. Niente di nuovo: chi ha meno cultura si esprime così, si affida alla fisicità per apparire, per emergere».

Insomma un desolante deserto antropologico.

«È la soggettività il vero male di questi ultimi 50 anni. Se tutto diventa soggettivo, soggettiva è anche l’etica e la ricerca della libertà da tutto e a tutti i costi. È così tra i giovani che fanno a pugni o stuprano per emergere come nel mondo dell’economia: se riconosciamo che la soggettività personale vince su tutto, allora si capisce facilmente come si arriva a Colleferro».

Le radici delle violenze di Colleferro, Caivano o di Pisticci non c’entrano nulla con i social network, hanno radici plurime e profonde; e non è proprio questa la sede per parlarne. 

Mi chiedo però se l’esaltazione di questo soggettivismo di cui parla De Rita non abbia trovato nello spazio digitale un ambiente naturale in cui crescere e poi sedimentare. Non voglio sempre ridurre tutto a questo luogo qui, ci mancherebbe. Ma credo che alcune abitudini che abbiamo adottato, in breve tempo, e che hanno stravolto la nostra quotidianità e rafforzato alcuni effetti sociali già presenti nelle nostre esistenze. 

La personalizzazione delle nostre esperienze di navigazione è uno dei mantra delle techno-corporation; l’aver posto l’utente come – apparente – bussola della sua vita digitale ne è l’effetto desiderato, ricercato per potere vendere al meglio pubblicità. Per non parlare della riduzione di tutto a volume misurabile: pensate a quanto sia costato ammettere l’errore per Facebook quando ha dovuto togliere il numero dei like da Instagram; e quanto aveva inciso (e incide sotto altre forme) l’estrema, e continua, e pervasiva misurazione della nostra vita digitale, assurta a gigantesco spazio competitivo. 

Ecco tutto ciò ha contribuito a radicalizzare alcuni processi, non ultima la grande ondata di soggettivismo di cui parla De Rita

Lo ripeto, perché conosco le obiezioni: queste considerazioni non esauriscono l’analisi delle cause di ciò che è accaduto, tuttavia sarebbe doveroso ascriverle all’elenco delle concause

Oppure pensiamo che 2 ore e 30 al giorno di tempo trascorso nello spazio digitale (ultima rilevazione Audiweb sul totale dell’audience digitale) siano acqua fresca? Che questi 150 minuti al giorno non producano effetti sulla nostra psiche, sulle nostre relazioni e dunque sull’idea che abbiano del prossimo? Che la nostra soggettività, completamente mediata dal prisma algoritmico, ne esca com’era prima?


Previsioni tecnocentriche 
(16 settembre 2020)

Che forma avrà il nostro tempo libero nei prossimi dieci anni?

Il Wall Street Journal si è dedicato a un grande classico del giornalismo: il lenzuolo delle previsioni per il futuro prossimo – quarantasei ! -, previsioni che avremo serenamente dimenticato da qui al 2030

Però ne ho scelte alcune, non così tanto futuribili, in cui la tecnologia gioca un ruolo cruciale, cui insieme all’impronta segnante della pandemia. Per la verità molte di queste previsione possiedono questi due elementi, e già questo sembra motivo di riflessione. Come se il cambiamento trovi leve possibili soltanto negli oggetti e comunque in qualcosa di esterno all’essere umano. A onor del vero ne esistono altre in cui la tecnologia sembra essere assente, ma ruotano comunque intorno a scelte di consumo. 

> Daremo mance a camerieri robot che puliranno le stanze d’albergo. 

> Negli aeroporti faremo il check-in con il riconoscimento facciale (in Cina è già possibile in alcuni scali, com’è possibile fare bancomat senza digitare alcun codice ma inquadrando la nostra faccia). 

> Molto prima del 2030 i passeggeri “germofobici” pagheranno per ottenere, in aereo, posti e classi addirittura super igienizzate.

> I bagagli invece che su ruote si muoveranno come hovercraft e li collegheremo a noi col bluetooth, in modo che possano seguirci autonomamente.

> Lo smartphone continuerà a calamitare sempre nuove funzioni, le più disparate. Comunicherà con tanti di quegli oggetti intorno a noi che sarà sempre più un’estensione del nostro corpo, avvicinando l’essere umano al destino del cyborg.
(Non sono molto convinto di questa previsione, penso che tenderemo a dimenticare lo smartphone, a dematerializzarlo e a rapportarci direttamente all’intelligenza artificiale. In parte lo facciamo già quando ci rivolgiamo a Siri, ad Alexa, a Google. Lo smartphone come oggetto esisterà, magari smetteremo di tenerlo in mano. Per parlare, scrivere ed ascoltare messaggi utilizzeremo auricolari bluetooth sempre più piccoli, invisibili, presto innestati nelle nostre orecchie. Certo non smetteremo di scrollare – perdonate il verbo – le immagini dei social network, lo faremo attraverso occhiali che mostreranno immagini e molto altro; allo stesso modo utilizzeremo il GPS). 

Saremo in grado di scorrere immagini, pagare al supermercato e svolgere altri compiti tecnici abbastanza semplici grazie al controllo mentale. (Qualunque cosa voglia dire questa previsione, l’obiettivo è creare interfacce cervello-computer efficienti).

> Utilizzeremo gli smartwatch come idrovore di dati relativi alla nostra salute e alle nostre attività. Halo di Amazon va in questa direzione (ne parleremo presto su Disobbedienze). Nel giro di qualche anni i pazienti ingoieranno pillole con nanotecnologie che consentiranno di procedere ad autodiagnosi in tempo reale di molte patologie. 

> Le piastrelle di casa conterranno porzioni di schermi componibili a piacere. Insomma potremmo guardare una tv grande come l’intera parete del salone, un oggetto da oltre 100 pollici che quando è spento sembra un muro o la carta da parati.

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