La settimana Telegram (8-14 giugno 2020)

Che cos’è il doomscrolling?
(8 giugno 2020)

đź”´ Si chiama doomscrolling o doomsurfing, forse ne avete sentito parlare. Alla fine di aprile il dizionario Merriam-Webster li ha aggiunti alle parole di tendenza. Di cosa si tratta? Della tendenza di chi continua a leggere cattive notizie, scorrendo contenuti sui social network, anche se quelle notizie sono ansiogene, tristi, scoraggianti o deprimenti, e senza la possibilitĂ  di fermarsi o fare un passo indietro.

Insomma una specie di scroll continuo e colmo di negatività. 

Doom in inglese significa destino ma anche condanna. In realtĂ  la condanna cui ci sottoponiamo in parte deriva da alcuni nostri istinti primordiali. Mary McNaughton-Cassill, professore di psicologia clinica all’UniversitĂ  del Texas a San Antonio, spiega al Wall Street Journal che il cervello umano si è evoluto anche perchĂ© era costantemente alla ricerca di minacce e a fiutare pericoli cui sottrarsi o scampare, dalle bacche ai predatori ad altre tribĂą. Una costante che non ha abbandonato l’essere umano nella sua evoluzione.

Quando siamo impauriti il nostro corpo reagisce: il battito cardiaco e la pressione aumentano, produciamo adrenalina per rispondere al pericolo e alle minacce, come se dovessimo prepararci a uno scontro fisico. Tuttavia  non succede nulla: stiamo cercando il pericolo in uno schermo. 

Pur essendo consapevoli che non rischiamo nulla dal punto di vista fisico, non riusciamo a distaccarcene, e questo anche per un’altra ragione. E cioè che i social network sono progettati per massimizzare il tempo che gli utenti passano di fronte allo schermo.

L’impressione che ne ricavano le persone, pur dopo aver trascorso ore e ore a scorrere contenuti sullo smartphone, è che non potranno mai saperne abbastanza, non potranno mai essere informate abbastanza su un certo tema: dal Covid19 al razzismo. Questa sensazione è figlia dello scroll infinito: le applicazioni di Facebook e Twitter permettono all’utente di andare avanti virtualmente all’infinito. Questo caricamento infinito di contenuti fa sì che le persone «non raggiungano mai la soddisfazione di poter dire “Ah, adesso finalmente ho capito il problema”», spiega Coye Cheshire, professore di sociologia a Berkeley.

đź”´ L’unica soluzione è darci un taglio. Soluzione non facile visto che abbiamo creato nuove abitudini. Però un consiglio mi sento di proporvelo: cominciate con il rimuovere le notifiche dei social network dal vostro smartphone, non risolverĂ  il problema ma aiuterĂ . 


Creare volti che non esistono
(9 giugno 2020)

đź”´ Queste persone che vedete nelle foto, di seguito, non esistono. Non esistono se non – perdonatemi – nella fantasia dell’intelligenza artificiale che le ha create. 

Si tratta infatti di immagini create integralmente da un apposito generatore di volti iperrealista. Il software si chiama StyleGAN e l’ha sviluppato il colosso statunitense dei processori grafici NVIDIA.
L’intelligenza artificiale è stata addestrata a creare queste persone inesistenti dopo aver visto e acquisito oltre 70.000 foto di volti di persone in alta qualità. Le immagini possiedono tutte le caratteristiche somatiche, di età e di sesso, ma anche di accessori, come gli occhiali, possibili e immaginabili. Insomma una sorta di compendio dei volti dell’umanità.

Adesso distinguere un volto artificiale da un volto vero è davvero difficile, anzi letteralmente impossibile. Questo software è alla portata di tutti. E da un lato dobbiamo ammettere una grande fascinazione di fronte a una simile creazione di un’intelligenza artificiale. Allo stesso tempo ciascuno di noi immagina dietro i volti prodotti dalla macchina tanti possibili utilizzi fraudolenti. 

Ma adesso godiamoci questi visi di persone che non esistono, proviamo a immaginare e creare la loro storia a partire da quello che un volto di un uomo e di una donna raccontano. Il loro iperrealismo è seducente, e non può non ricordare il Mondo dei robot, vecchio film con Yul Brinner e quindi la serie tv Westworld

🔴 Provate a giocare con il software, ecco il link, basta aggiornare la pagina e apparirà una persona che non esiste. 


La cittĂ  ideale della tecnologia
(10 giugno 2020)

La città ideale è un vecchio sogno dell’umanità. In molti ci hanno provato, alcuni l’hanno descritta, altri l’hanno rappresentata. Tutti abbiamo presente il quadro esposto nella (meravigliosa) Galleria Nazionale delle Marche a Urbino. Un quadro splendido e metafisico ante litteram, di autore incerto, che ritrae alcuni palazzi, un’enigmatica scacchiera sotto una luce chiarissima. Non si scorge nemmeno un essere umano. Nessuno la abita. 

Oggi alla cittĂ  ideale pensano le grandi societĂ  tecnologiche. Per prima ci ha provato Google, con un progetto per una smart city a Toronto, poi abbandonato. Facebook voleva costruire 20mila unitĂ  abitative nella Silicon Valley. Nel primo caso sembrava piĂą che altro una specie di parco costruito per catturare i dati dei cittadini. Uno zoo digitale in cui le bestie erano le persone. Per il social network invece si trattava di una soluzione utile ad abbattere il costo mostruoso della vita nelle cittĂ  della Valley, a partire da San Francisco.

Adesso a questo elenco si aggiunge anche Tencent, conglomerato cinese, che possiede il social totale, da un miliardo di utenti attivi al mese, WeChat. L’azienda progetta infatti di realizzare una cittĂ  intelligente, Net City, da circa 2 milioni di metri quadri a Shenzhen, in Cina. 

Una superficie che equivale a quella di un piccolo quartiere, con uffici, una scuola, appartamenti, impianti sportivi, parchi e spazi commerciali. Tencent non vuole tanto costruire una company town, quanto una vera cittĂ  ideale aziendale, in cui la componente morale o pedagogica – se possiamo così definirla – pesa molto. Nel progetto si scorgono molte aree verdi e poche strade accessibili per le automobili, così da spingere i residenti a camminare o a utilizzare altri mezzi di trasporto; le poche strade scoraggiano la velocitĂ  delle macchine. I progettisti hanno in mente edifici non molto alti, pensati per massimizzare l’efficienza energetica e pannelli solari sui tetti.

Insomma una cittĂ  ideale che guarda soprattutto alla sostenibilitĂ , con tutto l’armamentario di futuribile connettivitĂ  e intelligenza artificiale al servizio della vita sanissima degli abitanti: un modello che ci si aspetta da una grande techno-corporation. Poca utopia e molta nudge, è il design della cittĂ  che spinge e orienta i comportamenti. 

Resta da capire come un progetto di questo tipo sopravviverà, oppure si esalterà, in considerazione del maggior numero di lavoratori impiegati da remoto, a causa di Covid19. La riflessione intorno al futuro delle grandi città svuotate delle sedi delle aziende è già cominciata, e forse finirà presto. Credo proprio che in pochi avranno intenzione di mollare New York, Londra o Shanghai. Chissà, magari nelle metropoli assisteremo a una contrazione delle zone adibite a uffici, che si trasformeranno presto in aree residenziali.

L’altra questione è se non dovremo cominciare a immaginare le città intelligenti come enclave dei soli lavoratori digitali e della conoscenza. Ricordo un film messicano, La Zona, che raccontava una di queste enclave. Allo stesso modo, fuori dalle alte mura delle lustre Net City, cresceranno slum e sobborghi abitati da quei lavoratori della gig economy e non solo, più in generale da quei lavoratori che saranno a servizio delle città intelligenti e dei loro abitanti. Non è difficile immaginare una specie di nuova struttura feudale e modernissima. Al centro il castello fortificato, efficiente, e sostenibile, in cui sfrecciano veicoli ecologici e silenziosi, uno spazio iper-connesso e colmo di servizi digitali.

Fuori abitano i vassalli, e ancora oltre una nuova servitĂą della gleba vincolata a doppio filo alle piattaforme e al reddito che se ne può trarre, una moltitudine che porta pizze e sushi, che consegna a domicilio pacchi contenenti qualsiasi oggetto; oltre i ponti levatoi abitano le tante categorie di invisibili che trasportano nella notte i monopattini e le bici elettriche per ricaricarli di energia e scaricarli, all’alba, in una delle vie terse della cittĂ  intelligente. Anche le cittĂ  ideali del futuro dovremmo immaginarle come scacchiere razionali e pulitissime, e pure stavolta noteremo l’assenza di alcuni esseri umani, in apparenza periferici rispetto al quadro; certo non l’assenza di tutti gli esseri umani, ma quelli che mancano risultano essenziali. 

Fantasmi in ombra, curvi e taciturni, e mobili come una statua di Giacometti, nella luce livida ai margini del quadro.


Il ritorno di Chris Cox
(13 giugno 2020)

🔴 Qualcuno ha scritto che è come quando Steve Jobs tornò alla Apple dopo esserne stato cacciato. 

Il paragone pare esagerato, ma certo Chris Cox ha avuto un peso importante nella storia di Facebook. Ha lavorato nel social network dal 2005 al 2019, ha contribuito a creare il newsfeed, andandosene per disaccordi con Zuckerberg l’anno scorso. Adesso Cox torna a Facebook, avrà l’incarico di Chief product officer e quindi di supervisionerà il prodotto, cioè tutto o quasi. Da Instagram a Facebook, da WhatsApp a Messenger. Anche perché sembra difficile immaginare che queste creature siano separate nella pancia della balena del codice.

 L’algoritmo, di app in app, offre funzioni ed esperienze differenti ai navigatori ma – probabilmente – conserva e utilizza i dati nello stesso modo e negli stessi server. Cox è un grande alchimista di questa enorme opera che estrae oro dai dati degli utenti, attraverso sistemi di profilazione e cattura delle preferenze. In un post su Facebook, ha scritto: «sono stato via poco piĂą di un anno, ma adesso il mondo è diverso». Ha ragione: il mondo è cambiato a causa della pandemia e anche il peso di Facebook è cambiato, aumentando la sua influenza a dispetto di ogni previsione. Chi si aspettava che il social network perdesse rilevanza dopo tanti scandali ha dovuto ricredersi. La creatura di Zuckerberg – e anche di Chris Cox – mai come ora appare centrale nella vita e nel discorso pubblico di tante nazioni. A partire proprio dagli Stat Uniti

Grazie alla presenza di uno dei fondatori di Facebook, Mark Zuckerberg potrebbe adesso dedicarsi alla politica, alle relazioni, alla difesa del social network dagli attacchi di una parte importante dell’opinione pubblica e alla relazione con gli oltre 40.000 dipendenti che lo accusano di stare dalla parte di Donald Trump. E forse Cox potrebbe diventare il CEO dell’azienda, concentrandosi su un prodotto che conosce come pochi altri al mondo: «è un posto che ho aiutato a costruire ed è il posto migliore per me per rimboccarmi le maniche e dare una mano».

Lasciando al fondatore il ruolo di padre nobile, proteggendolo in qualche maniera rispetto alle dĂ©faillance – strutturali, naturali – di Facebook, per esempio rispetto all’impossibilitĂ  di evitare che l’hate speech o notizie manipolatorie circolino e si diffondano senza problemi. 

Cox è molto amato in azienda e questo potrebbe contribuire ad allentare la pressione sul management e soprattutto su Zuckerberg. Martedì quest’ultimo si è dovuto sorbire una videoconferenza con 25.000 dipendenti che lo accusavano di essere troppo morbido col presidente degli Stati Uniti. 

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