Femminile tecnologico

Da qualche giorno mi interrogo sullo scrivere, in questo canale, qualcosa che non abbia a che fare con il potere digitale, con la smisurata fame di crescita delle techno-corporation, con la brama di dominio che le permea. Mi sono a lungo domandato se non sia un mio pregiudizio ma non credo sia così. La brama è resa esplicita dalle parole con cui Mark Zuckerberg era solito concludere le riunioni del suo staff, e cioè urlando: «Domination!». Ecco, mi chiedo se tutto questo parlare di un universo di maschi non possa annoiare, se non sia giunto il momento di provare ad ragionare intorno a un tema che potrei definire femminile tecnologico.

Non è facile, sapete? Non è facile nemmeno definirlo il femminile tecnologico tanto è maschile questo regno. Non è facile nemmeno pensarlo. Forse letteralmente non esiste. Dopotutto si tratta di un mondo di uomini, nato da uomini: ricercatori, professori universitari, matematici, hacker, ingegneri, inventori, per lo più uomini. Quasi esclusivamente uomini. Qualcosa di simile all’universo militare, di cui Internet e il computer sono entrambi figli primi e legittimi.


Ada

Certo, in premessa, vorrei ricordare una donna importante in questo ambito sebbene sia unica nel suo genere: Augusta Ada Byron, detta Ada Lovelace, figlia di Lord Byron. Un personaggio che va collocato alle origini della storia dell’informatica, ai primordi del calcolo automatizzato (se siete interessati potete leggere un bell’articolo di Nicolò Porcelluzzi dedicato proprio ad Ada). Il padre, dopo la nascita, non la vide mai più, ma continuò a chiedere di lei e a interrogarsi in questi termini circa il suo futuro: «spero che gli dèi le abbiano dato qualsiasi dono ma non la poesia: di folli simili nella famiglia ne basta uno». Ada è protagonista, suo malgrado, di un intreccio poetico che prese corpo in una villa sulle rive del Lago di Ginevra, dove Byron si trovava insieme a Mary Shelley e a suo marito. Più che un intreccio andrebbe definita una sincronia, il manifestarsi di due gradi di separazione tra chi contribuì a generare la prima macchina calcolatrice e chi scrisse la storia del primo cyborg. Fu infatti sotto una pioggia incessante nella villa sul lago che Mary cominciò a scrivere Frankestein, o il Prometeo moderno. E i dubbi circa i sentimenti e soprattutto i pensieri del mostro, e quindi di una macchina, erano gli stessi dubbi che agitavano Ada, la quale scriveva: ««La macchina analitica non ha alcuna pretesa di concepire alcunché. (…) Può eseguire analisi, ma non ha la capacità di prevedere verità o relazioni analitiche.» Alan Turing descrisse questa frase come l’obiezione di Lady Lovelace

Tuttavia, ed è la vera ragione per cui Ada trova posto qui oggi, anche lei soggiace ad una certa tradizionale dittatura paterna rispetto all’autonomia della propria ambizione, come auspicava Lord Byron si doveva evitare il destino dei folli, e Ada lo accontenta: «mi sto accorgendo che solo un’applicazione serrata e intensa a materie di tipo scientifico può impedire alla mia immaginazione di espandersi in modo incontrollato. … Credo che la prima cosa da fare sia intraprendere un corso di matematica».

Chissà magari avremmo avuto una straordinaria poetessa se Ada non avesse seguito le indicazione del padre. Chi può saperlo. E nel corso della storia dell’informatica – specularmente ad Ada – potremmo aver avuto donne geniali, geniali inventrici che però hanno dovuto soggiacere a scelte che non erano le loro. Dopotutto uno studio del 2015 pubblicato sulla rivista Science ha confermato che l’informatica e alcuni altri campi, tra cui fisica e matematica, feticizzano la “genialità”, coltivando l’idea che esista un potenziale innato. La ricerca ipotizza che questi campi tendono a essere problematici per le donne, a causa del presupposto che il genio – in questi ambiti – sia un tratto maschile.


I problemi della Silicon Valley 

Possiamo allora forse ritenere che la domanda circa l’esistenza di un femminile tecnologico sia sbagliata per assenza di presupposti? Perché ostinarsi a cercare il femminile laddove la rete – sostantivo femminile – ha assunto caratteristiche neutre? 

In essa ha preso corpo uno spazio digitale, il web, che è (dovrebbe essere, almeno) un ambiente neutro a disposizione di chiunque lo voglia abitare. E in buona parte lo è tuttora. Uno spazio che anzi, da quando è nato, ha protetto le differenze, le minoranze, dove molti ragazzi e ragazze hanno imparato a definirsi, a definire la propria identità. 

Ma non è questo il tema.

Allo stesso modo, il tema di cui voglio parlare non è nemmeno l’enorme diseguaglianza di prospettive che si respira per le donne nella Silicon Valley, nonostante vi lavorino persone in apparenza liberal e iper-istruite, nonostante aziende come Facebook abbiano in organico un Global director of diversity, nonostante certe società abbiano previsto anti-bias check-list, elenchi che evitano i pregiudizi di genere (se non sei un pilota questa è una tipica soluzione da nerd). Si può anche leggere l’importante saggio di Angela Nagle, “Contro la vostra realtà”, come un documentato percorso nel sessismo digitale e politico.
Non una donna qualunque, ma Melinda Gates ha affermato che «l’industria tecnologica deve sistemare (il verbo è to fix, riparare) il problema di genere, e deve farlo adesso». La rivista The Atlantic, la cui maggiore azionista è la moglie di Steve Jobs (la moglie di…), ha titolato una sua inchiesta: «Perché la Silicon Valley è così spaventosa (awful, anche orribile) per le donne?» 

Per non parlare delle molestie infinite, del fatto che una donna venga interrotta in una riunione più spesso rispetto a un uomo, della clamorosa differenza di retribuzioni e del sessismo che si respira nei campus delle techno-corporation. La percentuale di donne americane laureate in informatica ha raggiunto il picco nel 1984, erano circa il 37%. Da allora la percentuale è diminuita, più o meno costantemente, nel 2017 era al 18%. Scrive The Atlantic che in una terra di grandiose idee e di opportunità di finanziamento altrettanto grandiose, le professioniste nel settore tecnologico scoprono presto che la capacità di rifiutare le avance di un uomo, senza danneggiare il suo ego, rappresenta «un’abilità piuttosto importante che le donne di maggior successo nel nostro settore hanno».

Per terminare e delimitare meglio i confini di questo articolo, tengo a ribadire che ciò di cui voglio parlare non è nemmeno la gestione, il management, quasi esclusivamente maschile delle aziende di Big Tech. Ecco perché, osservando le donne che hanno  raggiunto posizioni vicine alla vetta, come Marissa Meyer e Sheryl Sandberg, noto che pochissime di loro sono fondatrici di un’industria tecnologica. Alcune sono CEO, amministratrici delegate, e mi vengono in mente Gillian Tans, a lungo capo di Booking, adesso Ginni Rometty, CEO di IBM e Susan Wojcicki di YouTube. Noto che manca l’aspetto della creazione, ma ci arriviamo tra un attimo.

Google, Facebook, Twitter, Instagram, Whatsapp, TikTok sono stati tutti fondati da uomini. Miliardi di persone nel mondo abitano spazi digitali pensati, progettati, disegnati da uomini. Da ragazzi, da giovani maschi.


Un’efebocrazia maschile globale

La Silicon Valley è una efebocrazia maschile globale, un regime oligarchico di tardo-adolescenti affamati di sapere, di sapere tecnologico, quasi esclusivamente composto da maschi. Maschi più o meno alfa. Nessuno di loro somiglia a Gordon Gekko, il mattatore del film Wall Street di Oliver Stone. E nemmeno al meraviglioso truffatore-guascone, e perennemente strafatto, interpretato da Leonardo di Caprio in quel capolavoro che è The Wolf of Wall Street. I lupi della Silicon Valley non mostrano quasi mai tracotanza a telecamere accese, non ringhiano nel proporsi al mondo, esibiscono un contegno misurato e trasandato, in cui l’abbigliamento, magliette e bermuda, costituisce la spia, ma sarebbe più preciso dire il sintomo. Salvo Elon Musk che incarna un’eccezione. Anche lo stesso Jeff Bezos, che è il più muscolare e anziano tra i suoi simili miliardari tecnologici, non sale mai più di un semitono nella scala dell’aggressività espressa. Vado a memoria, ma credo l’unica occasione in cui abbia mostrato, e soprattutto usato i canini, sia stato quando lo hanno ricattato per alcune foto: «se io, nella mia posizione, non mi oppongo a questo genere di estorsioni, chi potrebbe mai farlo?» Le altre eccezioni hanno avuto esiti nefasti, come Adam Neuman, fondatore di WeWork, che andava in giro per i corridoi scalzo, beveva Tequila, imponeva continui party, fino a notte fonda, ai dipendenti ed è finito estromesso dall’azienda che ha creato.

Generalmente i titani digitali non sprigionano quella fame di dollari, successo e potere che emana da ogni singolo poro della pelle di un broker allevato a Wall Street. Eppure – a osservarla bene – la sostanza è la stessa. In California nascondono quella stessa fame di dominio, denaro e potere, celandola lungo strade diverse, tortuose, meno appariscenti. Niente elicotteri, niente Ferrari e Lamborghini, piuttosto Tesla e monopattini; niente feste piene di ragazze e cocaina, anche se ciascuno di loro possiede un jet col pieno pronto a staccare l’ombra da terra non appena la situazione sociale si dovesse fare rovente a causa di disordini, terremoti, attacchi chimico-batteriologici.

Una ingegnere di YouTube, con cui parlammo io e mia moglie, nei viali alberati del Googleplex a Mountain View, ci raccontò di aver conosciuto uno dei due fondatori di Google, credo Sergey Brin, a un corso di balli tradizionali di gruppo. Materia complementare, dall’Hip Hop alla Capoeira, insegnata in diversi corsi dell’Università di Stanford, ateneo in cui i fondatori del motore di ricerca hanno portato a termine un dottorato di ricerca, la cui tesi era la descrizione di Google. Nel frattempo uno dei due frequentava anche un corso di balli di gruppo. Questo è il genere di passatempo, nulla che possiate vedere nella serie Tv Billions, insomma.

Sono persone che non intendono, in alcun modo, mostrare le stimmate della ferocia capitalista. Sono nerd diventati così influenti e ricchi, che hanno mutato la propria definizione in geek, perché nerd suonava male, tanto era colmo di irrisione. 

Sebbene il loro DNA, la loro infrastruttura culturale, risieda nella fornace di Burning Man, festival di arti e tecnologia nel deserto del Nevada, a Black Rock, in cui l’aggettivo “radicale” afferma un paradigma e un codice di comportamento. A Burning Man non si acquista nulla, si baratta tutto, nel deserto devi portarti ciò di cui hai bisogno altrimenti sei morto, dall’acqua a ogni genere di conforto necessario alla tua sopravvivenza. I tecnocapitalisti maschi amano rappresentarsi come pionieri nel vecchio e violento West, come i figli di chi pensa che, nella vita come nel business e in mezzo al nulla di Black Rock, sei sempre a un passo dalla fine: «a un click dall’estinzione», come ricordava ai suoi dipendenti e collaboratori Eric Schmidt, a lungo presidente di Google. Quanta retorica machista nascosta nella polvere del deserto, tra i fuochi, i costumi stravaganti, le performance e le roulotte che affollano Burning Man. In questo luogo sono andati con regolarità i più importanti e influenti di loro, affinché la fornace del Nevada lasciasse un’impronta sulla loro creatività e sul loro modo di mandare avanti le aziende. Gli universi di cui sono sovrani. 

I sultani digitali sembrano più appartenere alla fattispecie passivi aggressivi, di un’aggressività difficile da declinare tanto è il potere – stiamo sempre lì – che detengono. Non hanno bisogno di manifestarla nei comportamenti personali. Guardate le loro performance pubbliche e li troverete sempre mansueti. Esibiscono un volto angelico, innocuo, inoffensivo, mentre le loro aziende si mangiano  il mondo un pezzo alla volta. Non a caso uno di loro ha scritto un celebre articolo dal titolo: il software si sta mangiando il mondo. E non è una metafora ma un dato di fatto. 

Esiste poi la componente mitologica. E anche qui l’epos è tutto maschile. In questa storia non compaiono né dee, né Medee. Le poche Elena innominate, innumerevoli e senza volto, incarnano prede per le quali un giovane Menelao di White Plains (NY State) ha messo in piedi un’impresa titanica quanto la guerra di Troia. Intorno alle ragazze dell’Università di Harvard, Mark Zuckerberg ha edificato Facebook, e proprio le ragazze erano trofeo e bottino da esibire. Scrive David Kirkpatrick, in “Facebook, la storia: Mark Zuckerberg e la sfida di una nuova generazione”, che fin da subito, dai primi giorni di vita del social network, emerse lo spirito di competizione: «alcuni utenti lo videro più come un modo per accumulare il numero massimo possibile di amici, che non come uno strumento per comunicare e raccogliere informazioni interessanti. Molti utenti di Facebook la pensano ancora così».


Un social network progettato da una donna

Eccoci al cuore di questa riflessione che ha avuto bisogno di una lunga ma necessaria premessa. E che ruota intorno a un interrogativo: come sarebbe stato un social network progettato da una donna?
Che caratteristiche avrebbe avuto?
Quali funzioni avrebbe offerto agli utenti?
Domande alle quali, in tutta onestà, non so rispondere. E come me, nessuno saprebbe farlo.

La triste verità è che lo spazio digitale nel processo egemonico messo in atto delle techno-corporation ha subito un ulteriore processo di colonizzazione, quello degli esseri umani che lo hanno progettato e realizzato una riga di codice alla volta, e che hanno impresso la loro impronta su ciò che oggi abitiamo molte ore al giorno. E costoro sono tutti uomini. Non voglio dire che non esistano programmatrici donne, ingegnere informatiche donne in tutta la Silicon Valley, esistono eccome. Dico che nessuna di loro ha avuto la ventura, la possibilità, di creare un manufatto digitale che abbia plasmato le nostre vite, così come hanno fatto i ragazzi

Le programmatrici hanno subito – senza che ne sia rimasta traccia – il comportamento parassitario dei capi progetto uomini, dei sultani digitali uomini. I quali hanno prosperato su queste intuizioni e soluzioni femminili, e le hanno poi inserite in un contesto maschile, in forme e pensiero maschili.

Addirittura possiamo ipotizzare che la relazione dei programmatori con il codice, con i processori, con l’intelligenza artificiale sia costruita su un modello a trazione maschile. Sentite le parole di Ellen Ullman, scrittrice e informatica, nel suo romanzo “Accanto alla macchina”: «come tutti i programmatori maschi, mi piace insultare la macchina. Mi fa sentire superiore: più intelligente dell’hardware, più intelligente del software, più intelligente di chiunque li abbia costruiti». Chi di voi ha mai visto un informatico alle prese con un’intensa sessione di programmazione, e lo ha visto riferirsi allo schermo del computer, parlare al computer, sfidarlo, può capire quanto tutto questo non sia una boutade. E sempre la Ullman fa dire al suo personaggio: «nel programmatore entrano a contatto il mondo per come lo comprendono gli umani e il mondo per come va spiegato a un computer: ma quello che si produce è uno strano stato di disgiunzione». Uno stato che rimane a tutt’oggi esclusivamente maschile.

Forse proprio per questo è difficile immaginare il femminile tecnologico, perché nessuna donna ha mai progettato un social network, un motore di ricerca, un’applicazione che abbia mutato il panorama di Internet. Che abbia cambiato la nostra antropologia, la nostra psicologia di umani come è successo, per fare due esempi facili, con Google e Facebook. Per essere ancora più precisi: una donna potrebbe anche averlo fatto, ma non è stata finanziata per portare a termine l’Opera. E noi, di conseguenza, non abbiamo potuto scorgere in questo inedito social network creato da una donna, ciò che avrebbe potuto emergere dalla sua sensibilità, dalla sua esperienza di vita. Non esistono Jane Austen o George Eliot del web, non fin qui almeno, non sono ancora nate. Non esistono creatrici di universi digitali ulteriori. Nessuno ha dato loro la possibilità di esprimersi, di costruire uno spazio digitale alternativo all’esistente. Arriveremo forse a definire il femminile tecnologico quando lo vedremo all’opera. Quando ne vedremo l’Opera. E questo è un dato di fatto.

Viene da chiedersi se l’Opera tecnologica femminile sarà in grado di sganciarsi dal canone maschile. Se potrà generare uno spazio digitale differente, inedito, che non risponda ai criteri che fin qui la rete ha mostrato nel suo svolgersi maschile. Non soltanto rispetto alla prevalenza delle immagini, per dirne una, o alla centralità della dimensione performativa della nostra esperienza in rete. Ma anche rispetto alla possibilità di accedere ad altri sensi, e ad altri percorsi che la nostra mente e porzioni del nostro corpo possono compiere nella relazione con il prossimo, in uno spazio impalpabile eppure così decisivo.Si tratta di pensare a un modo di riprogettare, a partire da intuizione oggi inimmaginabili, la nostra avventura in rete, lasciando che tutto quanto abbiamo visto e fatto fin qui, possa risultare arcaico.

Un web plurimo, innumerevole, mutevole; posso solo moltiplicare gli aggettivi tentando di indovinarne uno che intercetti la traiettoria del futuro. Fantastico di una cosa che – almeno oggi – appare impossibile, irrealizzabile; sperando un giorno di poterla scorgere all’orizzonte. E sperando infine che possa mutare il corso della storia digitale, introducendo elementi nuovi, categoria nuove, che svilisca il far di conto e poggi sulle qualità, non sulle quantità. 

Continuando a utilizzare la metafora letteraria, speriamo che accada presto di poterci imbattere un un prodotto tecnologico sviluppato da una Virginia Woolf digitale. Uno spazio aperto che lasci libera la nostra coscienza, che non la imbrigli nei giardini recintati che hanno edificato le techno-corporation, e che questa libertà sia figlia di uno stile esatto e rigoroso, in cui l’immaginazione conquisti spazi e attinga a regioni che i programmatori maschi non hanno mai esplorato. Che nella scrittura del codice sviluppino come Virginia Woolf, nella parole di Nadia Fusini, la «capacità di “ricevere lo shock”. Di percepire, cioè, l’oggetto, l’esperienza, il pensiero, grazie a una forma di sradicato e sradicante straniamento, che la trasporta alla felicità dell’espressione». 

Possiamo immaginare una felice espressione della scrittura applicata all’informatica, una felice scrittura del codice che produca luoghi aperti e creativi. Ricordo MySpace, social network libertario, anarchico, modificabile, personalizzabile. Tutte qualità rinnegate dalla restaurazione digitale che è seguita alla prima, rivoluzionaria, fase della relazione tra persone nello spazio digitale. 

Mi si dirà che sono nostalgico. Certo che lo sono. Un amico mi ha chiesto se mi sento a mio agio nello spazio digitale così com’è concepito. La verità è che risulta piuttosto complicato rispondere, e immaginare un web altro. Capire se potremo trovarci più a nostro agio in condizioni differenti perché di condizioni differenti non se ne vedono.  

Per adesso possiamo tentare la fuga come unico mezzo per mantenersi vivi e continuare a sognare, possiamo esercitare una disobbedienza davvero minima (lo so…), possiamo inscenare la follia, ma non riusciremmo comunque a superare le colonne d’Ercole dell’universo digitale conosciuto. Parlo di un superamento dei confini conosciuti che sia alla portata di tutti; voglio dire, un attraversamento verso nuove regioni che però coinvolga lo stesso numero di utenti che oggi abita questo web. Insomma un movimento di massa. Non le soluzioni, intelligenti, giuste, sensate, ma escogitate da pochi ed esperti per pochi ed esperti. 


Soltanto un sogno

Magari tutto questo costituisce soltanto un sogno. E l’unica forma possibile di digitale applicato alle nostre vite prescinde dal genere e dal sesso di chi lo programma. Di chi lo realizza. Ma non posso non coltivare questo dubbio, dal momento che non possediamo una versione con cromosomi femminili dell’ambiente digitale. 

Se mai dovesse nascere questo spazio inedito e dovesse ottenere diritto di cittadinanza, se mai dovesse esprimere esso stesso un canone alternativo, una nuova struttura di senso applicata alla vita – e dunque ai sentimenti e alla conoscenza – degli individui in rete, a quel punto potremo anche ipotizzare una dialettica con l’universo maschile. E dunque una sintesi. A quel punto, i nostri figli, o meglio i nostri nipoti, potranno avventurarsi e muovere i primi passi in un geografia digitale in cui alcuni confini saranno abbattuti e di cui oggi mi risulta impossibile definire o descrivere il panorama. Com’era difficile immaginare la piega che avrebbe preso la storia della letteratura se non avessimo mai avuto Jane Austen, George Eliot o Virginia Woolf e Grazia Deledda. Oggi il loro contribuito è assorbito, diluito in una storia della letteratura che non possiede generi, ha arricchito in maniera incommensurabile la letteratura stessa.
E sappiamo benissimo che se togliessimo Gita al faro dal nostro canone, se cancellassimo di colpo La Storia di Elsa Morante dalle nostre lettura, anzi, se lo cancellassimo radicalmente, come se esso non fosse mai stato scritto, non solo la letteratura ma noi stessi saremmo profondamente diversi. Più limitati, più ciechi e sordi, più poveri.
Come oggi siamo più poveri, perché non abitiamo uno spazio scritto, progettato e realizzato da qualcuno che abbia una simile sensibilità, una simile intelligenza, una simile cultura applicato all’ecosistema digitale.

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