50 anni di Internet, cosa resta del sogno originario

Per festeggiare il mezzo secolo di Internet non c’è cosa migliore che ricordarne con meraviglia le origini, e celebrare con orgoglio quanto rimanga di quel sogno. A differenza del passo di Armstrong sulla Luna, il primo collegamento tra due università americane, nel lontano 29 ottobre del 1969, non ha avuto nemmeno un telespettatore in diretta tv. Pochi ricercatori sono stati testimoni di un breve tragitto di un pacchetto di dati tra l’Università della California, Los Angeles, e quella di Stanford, 350 miglia più a nord. Eppure per quel piccolo collegamento la metafora di un grande passo per l’umanità risulta più che mai appropriata. Chi negherebbe che Internet, in meno di mezzo secolo, abbia portato cambiamenti paragonabili a quelli introdotti dall’invenzione della ruota? 

La Rete ha davvero reso il mondo più piatto, ha abbattuto tempi e distanze, ed è diventata un’infrastruttura vitale per l’intero pianeta, ha sconvolto le relazioni individuali, la politica e l’economia; e dai primi vagiti della rete Arpanet ad oggi, un grande tratto di strada è stato compiuto collettivamente da buona parte dell’umanità.

Per ricordare quel momento il consiglio è recuperare un documentario del cineasta tedesco Werner Herzog dal titolo “Lo and Behold”, dedicato proprio a raccontare Internet a partire dai vagiti originari della connessione di dati “a pacchetti”. Nelle scene iniziali, Leonard Kleinrock mostra il primo computer, un armadio che sembra una vecchia cassaforte, dal quale esattamente partì il primo incerto collegamento. I ricercatori nelle due università avrebbero dovuto dirsi “Login” e invece riuscirono soltanto a trasmettere “Lo”, poi il sistema si piantò.

Il primo messaggio su Internet

Da quel momento però la tecnologia e l’uso della tecnologia hanno conquistato il pianeta. Per raggiungere le dimensioni e l’aspetto attuale abbiamo però avuto bisogno di un’altra creazione, e cioè il world wide web, ad opera di Tim Berners Lee, nel 1990, realizzata qui da noi, nella vecchia Europa.
Sebbene Internet sia nata con l’apporto essenziale della componente militare come tassello fondamentale dello scontro tecnologico con l’Unione Sovietica durante la Guerra Fredda, e come mezzo di comunicazione che avrebbe resistito a un attacco nucleare, la cultura che animava i primi ricercatori era sideralmente distante da qualunque utilizzo della rete come arma. Così come era sideralmente lontana da qualunque idea di sfruttamento commerciale di un’infrastruttura che aveva come missione principale la collaborazione. L’idea era quella di scambiarsi dati, di connettere persone per mettere in relazione esperienze e in definitiva di scambiarsi informazioni per allargare lo spettro della conoscenza a disposizione di tutti. “Internet è stata costruita in parte dal governo e in parte da società private, ma perlopiù fu creata da un gruppo blandamente coeso di accademici e patiti d’informatica – scrive Walter Isaacson, ne Gli innovatori – che hanno lavorato da pari a pari e condiviso liberamente le loro idee creative. Il risultato di questa condivisione è stato un network che ha agevolato la condivisione paritaria. (…) Internet è stata creata nella convinzione che il potere dovesse essere distribuito invece che centralizzato, e che qualunque diktat dovesse essere evitato”.

Oggi con 5,1 miliardi di persone connesse, qualcuno, semplificando, potrebbe affermare che Internet vada riavviata, come un programma che gira male o che è stato infettato da un virus. In molti la mettono sul banco degli imputati per quanto quotidianamente vi accade: sfruttamento commerciale e massiccio dei dati degli utenti, reati contro la persona, furti di identità, continue violazioni della privacy, disinformazione, manipolazione ai fini di strumentalizzazione politica, sorveglianza globale, censura. Come se a 50 anni di distanza quel sogno fosse stato largamente tradito.

Per la verità Internet come infrastruttura non ha alcuna colpa. Nella testa dei ricercatori che svilupparono le prime comunicazioni, la Rete – se proprio vogliamo attribuirle caratteristiche antropomorfe – è nata profondamente ingenua. Sono semmai le applicazioni che girano sul web e gli utilizzi che gli esseri umani fanno di queste applicazioni, ad aver tradito le motivazioni originarie. A dover essere riavviato semmai è il web e chi – le grandi techno-corporation – lo ha dirottato dalla missione originaria, per dirla con il titolo di un recente editoriale del Wall Street Journal.

Nonostante siano sotto i nostri occhi gli effetti perversi di un tradimento diffuso degli ideali che hanno portato a sviluppare il network globale, vi sono ancora molti ambiti in cui “l’ingenuità”, quella purezza e gli obiettivi che hanno partorito Internet 50 anni fa, rimangono intatti nella loro essenza. Proviamo a capire quali sono questi ambiti in cui la rete resiste come “tecnologia di libertà”, per dirla con Ithiel De Sola Pool (sociologo statunitense noto per le ricerche dedicate agli effetti delle innovazioni tecnologiche sulla società e autore del saggio “Tecnologie di libertà. Informazione e democrazia nell’era elettronica“).

Internet è ancora un enorme strumento di diffusione della conoscenza. Se è vero che, grazie a un utilizzo manipolatorio del web, la disinformazione è diventata strumento di lotta politica e se è vero che solo tre anni fa l’Oxford Dictionary ha definito la nostra epoca come epoca della post-verità, oggi chiunque può accrescere le proprie competenze e conoscenze a partire da risorse digitali. L’acronimo MOOCMassive Open Online Courses, corsi online aperti su larga scala, è la chiave d’accesso a risorse di conoscenza pressoché illimitate. Le università di Yale, di Harvard e di Stanford, solo per citare tre atenei non proprio qualunque, dispongono di una sezione molto nutrita dei loro siti dedicata proprio agli “open courses”. Tra i tanti ce n’è uno a Yale, splendido, dedicato a Hemingway, Scott Fitzgerald e Faulkner. Anche in Italia, la Federico II di Napoli propone corsi gratuiti, così come Unitelma, la versione telematica dell’università Sapienza di Roma. È evidente che nessuno ottiene un titolo di studio in questo modo, senza pagare e senza sostenere esami; tuttavia una simile potenziale diffusione della cultura, non era pensabile senza e prima di Internet.

Oggi l’assenza di censura, la libertà di espressione e d’informazione equivalgono anche alla possibilità di avere pieno accesso a Internet da parte di chiunque. Non sono pochi gli Stati che, quando subiscono derive autoritarie, come primo atto censurano o limitano l’accesso alla rete. Il controllo di Internet, di come e quanto i cittadini vi accedano e di quanto possano esprimere nello spazio digitale, rappresenta un termometro che non mente circa il coefficiente di libertà di molte nazioni. E più nello specifico indica il gradiente dello stato di salute di una democrazia.
Corea del Nord, Etiopia, Cina, Uzbekistan, Cuba: non è facile per i cittadini di questi paesi ottenere una connessione libera e aperta. Abitare in nazioni in cui l’accesso alla rete non è sottoposto a vincoli, equivale a poter disporre di un ampio ventaglio di fonti di informazione e anche di libertà di espressione del proprio pensiero.

In questa cornice, molte minoranze considerano lo spazio digitale come un luogo privilegiato e riparato di difesa della propria identità. Praticare la dissidenza a certe condizioni significa rischiare la vita, e Internet è ancora uno spazio – più o meno sicuro – di diffusione delle idee.
Certo gli hater sono sempre più numerosi e sempre più aggressivi, ma tante comunità, forum, blog, gruppi nei social network, fanzine rappresentano uno spazio in cui potersi esprimere liberamente, senza timori di censura, in cui trovare rifugio.
Come scrive Danah Boyd in It’s complicated, “quando ho iniziato a vivere internet come adolescente a metà anni Novanta, andavo su internet per scappare dal cosiddetto ‘mondo reale’. Mi sentivo emarginata e incompresa a scuola, ma in Rete potevo ritrarmi come la persona che volevo essere. Ho assunto identità fittizie nel tentativo di immaginare chi ero”.

Oggi molti meno utenti utilizzano identità fittizie, non è più l’età di Second Life e degli avatar, tuttavia trovare riparo in spazi digitali protetti o in cui sentirsi a proprio agio, è rimasta una pratica molto diffusa. Si pensi a chi è emarginato per motivi religiosi, per la propria identità sessuale o per il colore della pelle e grazie alla rete ha la possibilità di rimanere in contatto con persone che possono aiutarlo e proteggerlo.

Allo stesso modo pensiamo alla condizione dei migranti del secolo scorso che, una volta lasciata la terra d’origine, avevano possibilità limitate di comunicare con i propri familiari. L’unico strumento per conservare una relazione era scrivere o farsi scrivere lettere, processo quanto mai complicato o impossibile per tanti migranti analfabeti che affollavano i ponti di terza classe in viaggi di sola andata; lettere poi sostituite da costosissime e non sempre accessibili chiamate intercontinentali. La fine delle comunicazioni, l’impossibilità della scrittura, l’esosità delle telefonate equivaleva a tagliare i ponti con il proprio passato, con le proprie radici.
Al contrario oggi Internet, a partire da un ridotto costo della connessione in quasi ogni parte del mondo, consente a un migrante di rimanere in contatto con la propria famiglia d’origine. Risultato che non salva dallo sradicamento, ma che può alleviare una – piccola – dose di sofferenze per chi è costretto ad abbandonare il proprio paese.

Come abbiamo visto la rete è nata nell’accademia, in un contesto in cui lo scambio di conoscenza tra scienziati è stato uno degli elementi che ne ha caratterizzato, da sempre, l’utilizzo. Oggi Internet rappresenta un’infrastruttura essenziale per lo scambio di evidenze, opinioni e casi di studio per chi si occupa di ricerca e di assistenza in sanità. Non solo per la condivisione di protocolli clinici e di sperimentazione da parte dei medici, ma anche da parte dei pazienti. Se pensiamo alla centralità che rivestiva il singolo utente – il peer – nelle motivazioni che hanno portato a sviluppare la rete per come la conosciamo oggi, l’esempio della piattaforma Patients like me rappresenta alla perfezione questa spinta ideale. Si tratta di uno spazio digitale che ospita i dati di oltre 600mila pazienti i quali si scambiano idee, dati e studi su oltre 2800 malattie. Obiettivo è quello di condividere esperienze e terapie, soluzioni che poi gli stessi pazienti porteranno all’attenzione dei medici che li hanno in cura. Un sistema che nei pazienti afflitti da patologie croniche, ha generato effetti positivi. Una specie di modello di partecipazione che non esclude il medico. Ricorda infatti Alberto E. Tozzi, in “Impazienti – la medicina basata sull’innovazione”, che: “il paziente è il massimo esperto della propria patologia. Per questo motivo il suo contributo può essere determinante nella soluzione di problemi che riguardano la sua condizione”.

Rimane un ultimo aspetto che probabilmente potremmo assimilare all’idea di Internet come volano di conoscenza e soprattutto come una moderna, infinita, immaginifica biblioteca di Babele dell’intero pianeta. Spazio digitale in cui conoscere insoliti luoghi e tipi inconsueti ma realissimi. Immagini di destinazioni incredibili, fotografie e video in diretta di territori straordinari, isole sperdute e lontanissime, che mai avremmo potuto vedere senza la rete. Esiste un sito che è una specie di summa di tutto questo: Atlas Obscura che elenca nazione per nazione luoghi insoliti del pianeta con un catalogo di fotografie.

Allo stesso modo si pensi ai social network come a una grande piazza in cui cogliere, non solo molte storture, ma anche la meraviglia che un essere umano sconosciuto è in grado di condividere con altri suoi simili. Spesso nel gioco di condivisioni siamo colpiti da una frase, da un’immagine, da una notizia postata da una persona che non abbiamo mai visto, né conosciuto. Viene in mente una frase che Georges Simenon nelle sue Memorie intime utilizza per spiegare il senso della sua scrittura e, più in generale, della letteratura, come qualcosa che gli aveva consentito di “andare in giro per il mondo e di conoscere e frequentare popoli di ogni Paese, mosso dal bisogno sempre più esacerbato di scoprire l’uomo, senza orpelli, senza maschere, quello che ho chiamato l’uomo nudo, l’uomo nella sua essenza originaria”.

Se la guardiamo nella sua essenza più profonda, Internet continua oggi a essere uno straordinario e stupefacente strumento di conoscenza, soprattutto di quel soggetto di studio meraviglioso che è l’essere umano.

POST SCRIPTUM

(In questi giorni, anzi proprio nel giorno del compleanno di Internet, un deputato italiano, che ignora quanto accade qui dentro, ha detto che per combattere l’odio in rete serve la consegna di documenti che certificano l’identità delle persone. L’idea è tanto sciocca quanto inutile. Intanto perché l’anonimato reale è pressoché impossibile da ottenere, le forze di polizia sono in grado di rintracciare chiunque a partire dall’indirizzo IP, e cioè da un numero univoco che identifica qualunque connessione. Il tema dell’hate speech rimane e va affrontato, soprattutto per chi – non solo i politici quanto i cittadini comuni – ne è vittima. E va affrontato avendo riguardo alla celerità dell’azione penale e alla sensazione di vulnerabilità che colpisce le vittime.
Ma resta il fatto che la proposta è inconsistente e pericolosa, perché tradisce un ideale originario quello della libertà massima d’espressione; perché si avvicina a quelle forme di controllo della connessione tipiche dei paesi illiberali, e infine perché è una proposta populista che semplifica un tema molto complesso per il quale occorrerebbe studiare prima di dire. Anzi di twittare).

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