L’Applicazione “Immuni” e la vera battaglia politica

Esiste un problema di cultura dei dati molto più serio dell’Applicazione Immuni promossa dal governo, di cui in questi giorni molto di discute. Ed è un problema enorme, di natura politica, sociale, culturale appunto, che la crisi del nuovo Coronavirus ha ulteriormente ingigantito. Ricordiamolo l’App Immuni, attraverso la tecnologia Bluetooth avvertirà una persona che è entrata in contatto con un soggetto positivo, del rischio che sta correndo, invitandola all’auto-isolamento. 

Fa sorridere discutere di Immuni e di privacy (di un’app pubblica) in un momento storico in cui le percentuali di utilizzo delle piattaforme delle techno-corporation crescono a due o tre cifre percentuali. Percentuali che raccontano di una cessione di dati, da parte degli utenti, che ha dimensioni mai viste in precedenza. Anche se il mercato pubblicitario è in crisi, le aziende della Silicon Valley stanno beneficiando – potremmo dire quasi loro malgrado – di una clamorosa operazione di investimenti sull’infrastruttura più redditizia che possiedono: i dati degli utenti. Investimenti che renderanno molto denaro e per molto tempo. Mentre le techno-corporation stanno ferme, gli utenti cedono dati a un ritmo mai visto in precedenza: pubblicano, esprimono reazioni, commentano, ricercano, guardano, leggono. 

Questa cessione di dati costituisce la fotografia in tempo reale della reazione dell’umanità alla pandemia. Nessuno al mondo è in grado di rappresentare quello che miliardi di persone stanno adesso vivendo, e con un tale grado di precisione, come le techno-corporation della California. Potremmo stilare un lungo elenco di differenti aspetti della vita umana di cui le techno-corporation si cibano, ma non c’è bisogno di stilare questo elenco perché è sotto gli occhi di chiunque lo voglia vedere. I dati, come i buoi, sono abbondantemente scappati dalla stalla molto prima della pandemia. Discuterne oggi fa sorridere. 

Tra l’altro, laddove ce ne fosse bisogno, ricordiamo che le techno-corporation conoscono e conoscevano, molto di più di quanto non possa fare un’applicazione sviluppata in fretta e furia, tante informazioni preziose sui rischi, la mobilità e le possibilità di contagio. Informazioni utili a costruire la mappa del contagio. L’annuncio della recente collaborazione tra Apple e Google rende ancora più plastico questo stato di cose. Sentite cosa dicono le due aziende a proposito dell’intesa che prevede una «soluzione completa che include interfacce di programmazione app (API) e tecnologie a livello di sistema operativo per favorire l’attivazione del tracciamento dei contatti. Vista l’urgenza, il piano è di implementare questa soluzione in due fasi, garantendo sempre la massima protezione della privacy dell’utente. Nella prima fase, in maggio, le due aziende rilasceranno API per consentire l’interoperabilità fra i dispositivi Android e iOS delle app sviluppate dalle autorità sanitarie». Proviamo a tradurre: daremo noi ai governi tutti i dati che vogliono, perché quei dati noi li possediamo già. Noi che esprimiamo più della maggioranza assoluta dei sistemi operativi degli smartphone in mano agli utenti di tutto il pianeta. 


Che le grandi aziende della Silicon Valley abbiano già tutti i dati disponibili, lo ha ben evidenziato qualche  giorno fa il New York Times. In un articolo ben documentato, senza particolari dotazioni tecnologiche e scavando in Google Trends (lo strumento di Google che descrive la popolarità delle chiavi di ricerca per aree geografiche e in un determinato lasso di tempo), Seth Stephens-Davidowitz ha ricostruito la diffusione dell’epidemia, a partire dalle domande degli utenti. A partire da una cosa semplice ed essenziale come gli interrogativi degli utenti. In questo caso il nodo era la mancanza di gusto e sapore che sono uno dei sintomi di Covid19.

Detto tutto questo, l’applicazione promossa dal Governo potrebbe essere utile, e lo sarà per un paio di funzioni essenziali: la prima è avvisare una persona del fatto che possa essere positiva al virus, la seconda fornire al governo indicazioni sui nuovi focolai. Certo è un’applicazione che da sola non serve a nulla, ma, come mi ha spiegato un epidemiologo, «in una fase “fredda” della pandemia, l’identificazione tempestiva dei nuovi focolai è la misura più efficace di contenimento».

In questa fase, chiarisce un’epidemiologa, «non è più tempo di occuparci e preoccuparci del numero dei contagi, ma è doveroso guardare all’indice di trasmissibilità (il famoso R0)». E su questo l’App è più che mai necessaria. 

La sorveglianza epidemiologica ha nell’applicazione solo uno dei processi che servono per esercitare il contenimento della pandemia. Dal momento che si tratta di un processo complesso, la sorveglianza (e cioè il processo che genera dati) deve essere accompagnata da molto altro se vuole riuscire a guidare le scelte di sanità pubblica: processi e strumenti che rientrano nel campo più ampio della programmazione sanitaria d’emergenza (sì, siamo ancora in emergenza). 

Vediamo alcune altre condizioni e requisiti dell’Applicazione che inoltre dovrebbe:  

  • essere scaricata dal 60% degli utenti per avere un minimo valore;
  • accompagnarsi alla realizzazione dei tamponi e dei test sierologici, e alla contestuale velocità nella consegna dei risultati e nella loro digitalizzazione;
  • avere nell’armonizzazione dei dati da parte delle regioni un elemento di certezza;
  • accompagnarsi alla creazione di luoghi protetti per gli infetti paucisintomatici e asintomatici;
  • identificare una soluzione al problema dei minori (che non possiedono uno smartphone) e degli anziani che non possiedono o non sanno usare lo smartphone;
  • risolvere il tema sostanziale della de-anonimizzazione per gli operatori sanitari, i quali devono sapere, ma soprattutto deve saperlo la struttura per cui lavorano, se sono a rischio positività.

Detto in altri termini: l’applicazione velocizza un processo – il cosiddetto tracciamento manuale dei contatti – che richiede per un singolo positivo almeno 12 ore di lavoro per un minimo di 3 persone impiegate. Ah, e ci sarebbero da controllare anche coloro che stanno in quarantena e che non dovrebbero andare a spasso. Tutto ciò, come detto, non esaurisce il processo di sorveglianza, anche se ne è la condizione necessaria e sufficiente (ripeto necessaria e sufficiente).

Certo, questo è uno di quei casi in cui il passaggio di un confine semantico si rivela estremamente facile. Un passaggio semplice in una situazione estremamente complessa. Il confine valicabile è quello da una sorveglianza epidemiologica a una che non ha questa stessa finalità. 

Il governo e il garante della privacy assicurano che non si corrono rischi sia sul fronte della conservazione che della sicurezza dei dati. Ce lo auguriamo.
Più in generale potremmo affermare che il diritto alla tutela dei dati retrocede di fronte a quello della salute.

Fin qui le questioni relative al funzionamento dell’applicazione. 

Adesso, invece, arriviamo al significato più profondo di questa vicenda. E cioè a chi, e come, esercita il potere in una situazione come quella che stiamo vivendo, e sulla base di quali presupposti.
Affermare, come ho letto nel decalogo di un’associazione, che l’epidemia non è un problema tecnologico è affermare una sciocchezza: si tratta di una semplificazione colossale. In una società iper connessa, ahimè, ogni problema è anche un problema tecnologico. Qualunque presa di posizione che parta dalla pretesa di una rimozione della tecnologia dal campo di applicazione della clinica e dell’epidemiologia è ridicola. In che modo, senza tecnologia, sarebbe possibile arrivare a determinare se una persona è morta di Covid19, pressoché in tempo reale?

Ciò di cui discutiamo oggi non dovrebbe essere soltanto della privacy dei cittadini, ricordiamoci sempre dei buoi fuori della stalla, ma di un utilizzo da parte delle istituzioni dei dati dei cittadini con fini di sanità pubblica.  Avete minimamente idea della scarsa (scarsissima) capacità di correlazione dei tanti dati che possiedono le amministrazioni pubbliche e della – invece – facilità con cui Google, per dirne una, può aggregare e correlare tutto quello che sa di noi? Le pubbliche amministrazioni italiane non sono Penelope Garcia di Criminal Minds

I dati aggregati di miliardi di persone dovrebbero essere un bene comune; eppure li possiedono per lo più meta-nazioni digitali dalle quali nessuno è andato per reclamarli e pretenderne l’utilizzo con fini di sanità pubblica. Nessuno è andato da loro esercitando un potere legittimo, esercitando quel monopolio dell’esercizio della forza che sta in capo agli Stati in uno stato d’eccezione come quello che stiamo vivendo e che – in quanto stato d’eccezione – ha tenuto a casa milioni (miliardi nel mondo) di persone, limitandone la libertà personale. Tanto suona assurda questa pretesa, anche in chi la formula, che è sembrato naturale che ciò non sia accaduto. E che quindi il governo italiano e così altri governi abbiano dovuto sviluppare da soli un software che raccoglie e correla dati, quando sarebbe stato più facile obbligare Google e Facebook a fornire quei dati in maniera imperativa.

Ricordiamo poi che per il singolo i dati rappresentano esattamente l’individuo, la persona, il singolo essere umano. Essi sono l’individuo, costituiscono una parte di noi che concorre a definire chi siamo. I dati non sono di nostra proprietà, i dati siamo noi, i dati sono noi. Dovremmo rammentarcene. E ricordarlo ai promotori dei dibattiti sulla privacy, e a chi evoca un presunto protagonismo della società civile (!) chiamata a controllare ciò che i decisori pubblici fanno dei nostri dati. 

Proviamo con questa metafora, per capire se siamo d’accordo. 
Laddove il sangue – ovvero noi, il nostro corpo, e non soltanto la nostra rappresentazione – recita la parte dei dati
Bene, se c’è un’epidemia e una mia donazione di sangue, a fini di ricerca, è utile a trovare un vaccino, non sto lì a discutere di quello che c’è scritto sulla provetta col mio nome, e del laboratorio in cui va a finire. Mi preoccupo che quel sangue vada in un istituto di ricerca che studia e trova il vaccino. 

Per rimanere nella metafora, altri fino ad oggi hanno sottratto – grazie al mio distratto consenso – il mio sangue, non per studiare vaccini, ma per commercializzare qualunque cosa. E visto che oggi possiedono grandi riserve di sangue vanno a dire all’Istituto di ricerca che sono pronti a dargli vetrini e risultati delle analisi, se proprio ci tengono. Vetrini e risultati, non le sacche di sangue, che sono di loro proprietà. 

La biopolitica, passateci la semplificazione, è una cosa seria. E nello spazio digitale la biopolitica (psicopolitica la chiama Byung-chul Han) è diventata monopolio di aziende private talmente grandi e potenti da costringere (si veda alla voce dopamina e meccanismi di ricompensa variabile), da costringere gli individui a utilizzare gli smartphone (e il loro contenuto) come talismani sanguisughe e a tenere in soggezione gli Stati. Queste aziende, le techno-corporation, sono tanto influenti da limitare in profondità l’esercizio del potere pubblico, da limitarlo così tanto che in una situazione d’emergenza gli Stati ne hanno pudore, e non esercitano la coscrizione dei dati (utilizzo il termine non a caso, visto il proliferare di metafore guerresche), hanno vergogna di bussare alla porta di quelle aziende per procedere a espropri per ragioni di pubblica utilità e si sottopongono allo scrutinio di un dibattito surreale. Laddove mai ci fosse bisogno di una cartina di tornasole della debolezza della politica, e del protagonismo pubblico, questa vicenda potrebbe essere portata ad esempio. 

Tra l’altro, fa bene Luciano Floridi a ricordare che, nel 2017, solo il 43% dei cittadini europei non aveva competenze digitali e il 17% non aveva proprio accesso alla rete.

Se i dati aggregati sono un bene pubblico, e lo sono, gli stessi che reclamano un maggiore protagonismo della sanità pubblica, che reclamano un maggiore protagonismo del pubblico tout court, farebbero bene a rivendicare un vasto esercizio di un potere pubblico sui dati. Se tengono a un protagonismo pubblico, che non si limiti alla facoltà di interdizione (si veda alla voce GDPR), farebbero bene a incoraggiare lo sviluppo dell’applicazione, con tutti i limiti da correggere in corsa.

Oggi discutiamo di elementi dell’Applicazione Immuni che possono giustamente essere perfezionati (protocollo PEPP-PT vs. DP-3T) e questo è sensato, ma ciò che è ragionevole non deve essere d’ostacolo allo sviluppo dell’Applicazione stessa; se è vero che la privacy e la sicurezza dei dati verranno garantite, così almeno assicura lo Stato italiano e non il board di Facebook. Questi elementi vanno migliorati in fretta e sulla base di valutazioni che tengano conto dell’interesse pubblico e non – ad esempio – della precedente o maggiore diffusione di un protocollo rispetto a un altro; o del fatto che questo protocollo sia utilizzato dalle grandi aziende tecnologiche. 

Dire che dobbiamo rendere compatibile il tracciamento di una pandemia con la democrazia (!) mentre qualcun altro in California se la ride, significa sollevare questioni di lana caprina e non capire che il tema rilevante è quello dell’esercizio di un potere legittimo, non quello dell’accondiscendenza ad altri poteri, al potere alle meta-nazioni digitali, il tema è quello della concessione o meno di dati ad altri soggetti e non della subalternità culturale e politica di uno Stato (con tutti gli enormi difetti che possiede) a una meta-nazione digitale. 

Impallinare l’App significa impallinare il ruolo pubblico in questa vicenda, fare quella che un tempo si sarebbe definita una battaglia di retroguardia, con la consapevolezza che il pubblico già parte in profondo ritardo, in svantaggio. Detto in altri termini se fallisce la padella Immuni, cadiamo nella brace Apple-Google. Contenti voi… 

Ps. Non appena ho finito scrivere questo pezzo, Facebook ha annunciato che mette a disposizione di chiunque le mappe della diffusione dell’epidemia, realizzate con i dati ceduti dagli utenti. Ecco, se c’era bisogno di una controprova di quel che ho scritto, beh, ecco il link alla Mappa di che ha i sintomi di Covid19, sviluppata da Facebook e dalla Carnegie Mellon.

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Un commento su “L’Applicazione “Immuni” e la vera battaglia politica

  1. Uno scenario molto possibile ed ovvio.. , pericolosissimo allo stesso modo. Non ho mai pensato che questa app sia utile… anche se ho uno smartphone è probabile che già conoscono molti miei dati. Ma mi rifiuto e mi rifiuterò di scaricare questa app. Non mi è sembrato assolutamente che il governo italiano abbia seguito e servito bene il nostro paese. Mi trovo in Austria da mesi dove vivo metà anno e se hanno chiuso le frontiere e ciò per un autogol tutto italiano… per colpa di incompetenti è inutili task force e virologi politicizzati ..!! Tutto ciò mi pare terrorismo dittatoriale… seminare panico ecco cosa ha combinato il governo italiano … follia pura

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